Da Corriere della Sera del 31/08/2005

Uccisi 60 guerriglieri. Gli ospedali locali: tra le vittime donne e bambini

Raid Usa nel nord Iraq. Colpite basi di Al Qaeda

Bush: «Andremo fino in fondo come nel ’45»

di Lorenzo Cremonesi

GERUSALEMME - Fermare il flusso di terroristi e guerriglieri in arrivo dalla Siria. E' il senso strategico dei bombardamenti americani ieri mattina nei pressi della città irachena di Al Qaim, oltre 300 chilometri a nord-ovest di Bagdad e meno di 20 dal confine siriano. I morti sarebbero una sessantina. «Tra loro anche donne e bambini» sostengono gli ospedali locali. Ma, a detta dei portavoce Usa, le vittime sarebbero «quasi tutte terroristi legati a Musab Al Zarkawi», il massimo dirigente di Al Qaeda in Iraq.

Il primo raid inizia verso le 6,20. Alcune potenti bombe teleguidate vengono sganciate su due palazzine nel villaggi di Hausaybah. «Qui viene ucciso il noto terrorista Abu Islam (un soprannome comune tra i leader dei gruppi di fuoco islamici), braccio destro di Al Zarkawi nella regione», precisano i comandi Usa. Un gruppo di uomini però riesce a uscire illeso dalle abitazioni colpite, sale su due vetture e scappa nel vicino villaggio di Karabilah. Circa due ore dopo gli F16 tornano in cielo e distruggono la casa dove avevano trovato rifugio.

Un'operazione che rappresenta solo l'ultima di una lunga serie. E' infatti almeno dalla primavera del 2004 che il Pentagono ha ordinato al contingente Usa in Iraq di intensificare i pattugliamenti contro gli infiltrati dalla Siria. Allora vi fu anche un grave incidente. Alcuni velivoli americani confusero gli spari in aria durante le celebrazioni di un matrimonio nel villaggio di Makr al Deeb per un attacco contro di loro. E bombardarono la folla. Causando la morte di almeno 40 civili innocenti. Dai primi mesi di quest'anno in ogni caso i blitz si sono intensificati.

Sembra infatti che molti tra i guerriglieri che si trovavano a Falluja (la città roccaforte della resistenza sunnita a ovest di Bagdad), siano fuggiti nella zona di Qaim dopo l'assedio Usa dell'aprile 2004 e soprattutto quello più pesante nel novembre seguente.

La seconda settimana di maggio 2005 venne quindi lanciata l'operazione «Matador», quando per circa 7 giorni 1.000 soldati americani misero a ferro e fuoco la regione, uccidendo 125 persone e arrestandone una quarantina. I morti Usa allora furono 9, con 40 feriti. A metà giugno venne poi lanciata l'operazione «Spear»: 50 i ribelli uccisi, 100 catturati. Negli ultimi due mesi la situazione si è fatta ancora più incandescente con l'inasprirsi dello scontro tra due tribù sunnite della zona, che ha causato almeno 20 morti: i Bumhal filo-governativi e i Karabilah pro-insorti.

Una situazione difficile per le truppe americane, che sempre più spesso si vedono costrette a intervenire in regioni dove avevano appena operato con la convinzione di aver debellato la guerriglia. Ieri i morti in diversi incidenti nelle zone centro-settentrionali nel Paese sono stati un'altra quindicina, circa la metà agenti della nuova polizia irachena. E proprio lo stillicidio quotidiano di violenze, assieme alla crescente opposizione alla guerra nell'opinione pubblica americana, ha spinto ieri George Bush a spiegare e rilanciare le ragioni della sua politica in Iraq. «Non ci fermeremo sino a che la vittoria non sarà americana e la nostra libertà assicurata», ha detto il presidente Usa in occasione delle commemorazioni per il sessantesimo anniversario della fine della Seconda Guerra Mondiale. Un discorso volto a tracciare il parallelo tra i due conflitti, soprattutto a enfatizzare le similitudini tra l'attacco a sorpresa giapponese a Pearl Harbour nel 1941 e quello dell'11 settembre 2001.

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