Da La Repubblica del 19/08/2005

Il trauma d'Israele

di Sandro Viola

GERUSALEMME - QUALI saranno sui nervi, sul cervello d'Israele, gli effetti di quel che sta accadendo negli insediamenti di Gaza? Come uscirà il paese da quest'altro lungo trauma? Da tre giorni, la gente guarda sugli schermi televisivi una serie interminabile di scene angosciose, laceranti. Bambini che si lasciano portar via dai soldati con le mani alzate, come nei film sulla repressione della rivolta nel ghetto di Varsavia. Gruppi di poliziotti che strappano di forza uno a uno dalla catena umana formata nelle sinagoghe –tra spinte, grida, sputi – i coloni che rifiutano di lasciare gli insediamenti. Un uomo che sporge un neonato dalla finestra, minacciando di lasciarlo cadere se i soldati s'avvicineranno. Sì, ore e ore di sequenze drammatiche.

Il fumo nero di case date alle fiamme, soldati che sfondano le porte d'altre case dove donne in lacrime e uomini in preda a convulsioni isteriche, gli gridano contro: «Nazisti, siete peggio dei nazisti». Una schiera di ragazze adolescenti, sul petto una stella di Davide color arancione (a ricordo della stella gialla che gli ebrei dovevano portare nell'Europa occupata dalle truppe di Hitler), che resiste all'evacuazione tenendosi aggrappata ad un cancello. Gli sputi sulla bandiera d'Israele, un giovane graduato che davanti alle telecamere rifiuta d'obbedire agli ordini dei superiori, un colono che da una terrazza agita un fucile mitragliatore gridando che è pronto a sparare.

Un trauma che nessuno aveva previsto di queste proporzioni e intensità. Il fatto è che il ritiro da Gaza doveva anche servire a rendere più chiaro, meno confuso, lo sfondo politico d'Israele. La maggioranza degli israeliani da una parte, la minoranza dall'altra. Una minoranza ultranazionalista, etnocentrista, pervasa ogni anno di più dal fondamentalismo religioso, che non intende lasciare neppure un pollice delle terre bibliche. E una maggioranza pragmatica che invece appoggia il ritiro da Gaza, non solo perché lo vede come un passo necessario per tirarsi fuori dal conflitto: ma anche perché oggi s'è fatta finalmente consapevole dei costi finanziari e in vite umane che ha comportato l'insensato insediamento di 8mila ebrei, in condizioni privilegiate (case spaziose, sussidi statali alle attività economiche, sostegno – per motivi elettoralistici – da parte di tutti i partiti politici),all'interno d'un territorio dove vivono, in una miseria africana, un milione e trecentomila pezzenti palestinesi.

L'evacuazione da un primo pezzo delle terre di Eretz Israel occupate nel '67, doveva dunque servire a contarsi. A stabilire che in Israele s'è ormai formato un fronte maggioritario deciso a imboccare la strada verso la pace, sapendo che questa strada deve passare attraverso nuove, graduali restituzioni d'una gran parte dei Territori occupati. Ma la violenta scossa psicologica che scaturisce in questi giorni dagli schermi televisivi sta intorbidando, invece di schiarirlo, il clima politico e morale del paese. Quante coscienze sono state turbate, sconvolte, alla vista delle scene a Neve Dekalim, a Kfar Darom, a Shirat Hayat? Quanto ancora reggerà nella maggioranza l'appoggio al ritiro, davanti allo spettacolo degli "ebrei che cacciano altri ebrei"? Che cosa succederà se quando le unità speciali dell'esercito tenteranno d'espugnare il tetto della sinagoga di Kfar Darom (dove mentre scrivo un centinaio di ribelli che vi sono ancora asserragliati stanno lanciando sui soldati un acido urticante che li fa gridare dal dolore), un giovane, una ragazza dovessero cadere ed ammazzarsi?

Questo è certo: le scene che gli israeliani stanno vedendo sui teleschermi produrranno nuovi guasti, faranno scorrere altri veleni, in una società già così profondamente divisa. Non solo c'è il rischio, come ho detto, che la maggioranza favorevole alla scelta di Sharon, all'abbandono di Gaza, s'incrini sotto l'urto delle emozioni di questi giorni. Non solo c'è da chiedersi cosa sarà l'esercito d'Israele, quando domani centinaia dei giovani che oggi partecipano alla ribellione vestiranno l'uniforme militare. Ma il rischio maggiore, e i servizi segreti ne sono consapevoli, è che le convulsioni di Gaza facciano scaturire dalle frange più estreme della destra nazional-religiosa nuovi episodi di terrorismo antiarabo.

L'agghiacciante sparatoria con cui un autista ebreo ha steso mercoledì sei palestinesi sull'asfalto, quattro morti e due feriti; le raffiche d'un soldato disertore due settimane fa, con altri quattro morti e molti feriti, su un autobus in Galilea; la pericolosissima provocazione di ieri, quando una folla di coloni è uscita da Shirat Hayam per lanciare pietre contro i palestinesi d'un villaggio vicino: tutti questi episodi, scrivono i giornali, testimoniano che lo Shin Bet e gli altri servizi di sicurezza avevano trascurato di prevedere e sventare nuovi scoppi di terrorismo ebraico del tipo di quelli avvenuti negli anni Novanta con la strage nella moschea di Hebron e l'assassinio di Rabin.

Così, sarà molto difficile tracciare nei prossimi giorni un bilancio dei contraccolpi usciti dall'abbandono di Gaza. Certo: le decine di migliaia d'uomini tra esercito e polizia impegnati nello sgombero forzoso delle colonie, finiranno col prevalere. Il partito dei coloni con i suoi alleati (gli ultranazionalisti, una larga parte dei religiosi) dovrà lasciare gli insediamenti. Ma il timore è che la sua sconfitta si riveli solo apparente e temporanea. Da domani qualsiasi governo d'Israele, anche se diretto da un uomo di temperamento roccioso come Ariel Sharon, dovrà infatti calcolare i costi di ripetere in Cisgiordania le buie, drammatiche giornate di Gaza. Quali altri sgomberi di insediamenti sarebbero possibili tra la Giudea e la Samaria, dove i coloni non sono poche migliaia ma 230mila, un quaranta per cento dei quali pronti a resistere con la stessa virulenza dei coloni di Gaza ad un ordine d'evacuazione? No, non è certo che la rivolta nazionalreligiosa sia stata completamente e definitivamente domata.

Tra tante ragioni d'inquietudine, due fatti positivi vanno tuttavia tenuti in considerazione. Il primo è il funzionamento del dispositivo d'esercito e polizia messo in campo da Sharon. Che ammirevole autocontrollo, che perfetto addestramento, hanno infatti dimostrato i soldati e i poliziotti d'Israele. Non una reazione alle violenze dei rivoltosi, non una smagliatura nel piano d'operazioni. E solo due o tre casi, per fortuna, di militari che si sono rifiutati d'obbedire agli ordini ricevuti.

L'altro fatto positivo è la condotta dei palestinesi, dai quali non è venuto (contrariamente ai timori che circolavano) alcun disturbo o provocazione. Se tutto andrà bene, sul loro versante, anche nei prossimi giorni, se mostreranno la stessa ragionevolezza sino alla fine dello sgombero di Gaza, il prestigio della leadership di Mahmud Abbas ne uscirà rafforzato. La loro credibilità d'interlocutori nella cornice d'un nuovo negoziato sarà cresciuta. Le speranze della pace sembreranno un po' meno fragili e nebulose.

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