Da La Stampa del 04/08/2005

Mutati per sempre i rapporti tra le nazioni

6 agosto '45 così cambia la storia

di Aldo Rizzo

Hiroshima, sessant'anni fa. Un luogo e una data che hanno cambiato la storia del mondo per sempre. Era il 6 agosto 1945. Alle otto quindici minuti e diciassette secondi, ora giapponese, si aprì il portello del B29 «Enola Gay» e la bomba da quattro tonnellate (nome in codice, «Little Boy») iniziò la sua vertiginosa caduta. Erano previsti 44 secondi prima dello scoppio. L'artificiere Morris Jeppson scandì il tempo a bassa voce. Quando il tempo stava per scadere, ci fu un momento di panico. Jeppson urlò: «Non scoppia!», e Bob Caron, il mitragliere di coda, disse: «Niente. Non succede niente».

Due secondi dopo, una luce abbagliante, agghiacciante, raggiunse l'aereo e subito dopo una prima onda d'urto lo investì, facendone scricchiolare paurosamente le strutture. Il B29, guidato dal colonnello Paul Tibbets, era partito dall'isola di Tinian, nelle Marianne, e molti membri dell'equipaggio erano stati informati solo all'ultimo momento della speciale natura di quella missione. «Little Boy» provocò la morte di circa 75 mila persone, ma alla fine del 1945 le vittime, collegabili all'esplosione, per l'effetto radioattivo, erano diventate 140 mila e, nel 1950, 200 mila.

Tutto era cominciato tre settimane prima, il 16 luglio, nel deserto del New Mexico, quando un gruppo di scienziati, in prevalenza europei, sotto la guida di Robert Oppenheimer, aveva portato a termine il «Progetto Manhattan» facendo esplodere la prima bomba atomica. Un'esplosione «sperimentale», che aveva lasciato attoniti gli stessi scienziati. Oppenheimer disse di aver citato mentalmente due versetti della «bibbia» indù: «E ora io sono diventato la morte / il distruttore dei mondi». Ma fu a Hiroshima (e tre giorni dopo a Nagasaki) che la bomba uscì dal segreto militare per irrompere tragicamente sulla scena mondiale, restandone protagonista. A proposito di Hiroshima, il grande saggista francese Raymond Aron ricordò la frase pronunciata da Goethe dopo la battaglia di Valmy del 20 settembre 1792: «Da qui, da oggi, comincia una nuova tappa della storia universale».

Con una grande differenza, tuttavia. La ritirata degli invasori prussiani segnò il definitivo successo della Rivoluzione, mentre Hiroshima aprì un'epoca nuova indipendentemente dalle ideologie. Fu anch'essa una rivoluzione, ma «tecnica», a disposizione di qualsiasi sistema ideologico, e di dimensioni tali da sconvolgere tutti gli schemi del passato, strategici e diplomatici, e da costringere le stesse ideologie a segnare il passo, di fronte al problema della sopravvivenza fisica di chi le professa. Il solo paragone possibile era con l'invenzione della polvere da sparo.

Che però richiese secoli per svilupparsi e che, pur con tutta la sua importanza, incise solo relativamente sulle componenti ultime della strategia. Chi aveva armi migliori o in maggior numero poteva vincere una battaglia o una guerra, ma non necessariamente e comunque lasciando all'avversario la possibilità di una rivincita. Chi possedeva la bomba atomica aveva una superiorità insuperabile su chi non ne disponeva, tant'è che nacque una scuola di pensiero (in Francia, il generale Pierre-Marie Gallois, ispiratore di De Gaulle, in Italia il diplomatico e politologo Roberto Gaja) secondo la quale la stessa sovranità degli Stati sprovvisti veniva posta in discussione: questi ultimi erano ridotti a una condizione paracoloniale.

Teoria estrema, ma non infondata. E la bomba di Hiroshima era, nel suo genere, rudimentale, oggi considerata una semplice unità di misura. Sette anni dopo, alla bomba A (che utilizzava la scissione del nucleo dell'atomo) successe la bomba H, che sfrutta invece la fusione del nucleo, con una capacità di distruzione centinaia di volte maggiore, e che può essere lanciata in pochi minuti su ogni parte del globo, grazie ai missili intercontinentali. A questo punto, la più celebre affermazione di Clausewitz («La guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi») si rovesciava nel suo esatto contrario, perché la guerra, per la prima volta, diventava un affare in perdita per tutti.

E siamo all'«equilibrio del terrore», quello instauratosi tra Usa e Urss (i sovietici ebbero la bomba nel 1949) e che avrebbe dominato tutto il periodo della «guerra fredda». Che non divenne mai calda appunto per questo. Se l'Urss potè difendere il suo dominio antidemocratico nell'Est europeo forte del «ricatto» atomico («distruzione reciproca assicurata»), dovette cedere, per lo stesso motivo, nella crisi dei missili a Cuba, e infine il suo sistema economico-politico implose sotto la pressione tecnologica, atomico-spaziale, dell'America.

Quanto a noi europei occidentali, pensiamo agli anni duri, tra la fine dei Settanta e gli Ottanta, della sfida missilistica sovietica (gli SS20) alle nostre città, alla quale avrebbe posto fine Gorbaciov, pressato da Reagan. Ma non soltanto i rapporti internazionali sono stati pesantemente condizionati dall'arma nucleare (l'«arma assoluta»), lo è stato anche il nostro modo di pensare il presente e il futuro, sapendo - novità sconcertante - non di pericoli, magari gravi ma circoscritti, bensì di un'apocalisse sempre incombente o potenziale. Anche se questa consapevolezza, forse per un'autodifesa psicologica, è intermittente, ed è stato più il cinema che la letteratura a stimolarla (valgano film come Il dottor Stranamore di Kubrick, L'ultima spiaggia di Kramer, The day after di Meyer). Sono passati sessant'anni da quel giorno a Hiroshima. Oltre agli Stati Uniti e alla Russia, erede dell'Urss, vari altri Paesi hanno avuto la bomba. La Gran Bretagna nel 1952, la Francia nel 1960 e la Cina nel 1964.

Dopo la fine della guerra fredda, e relative illusioni, l'epidemia nucleare ha contagiato altri due grandi Paesi, l'India e il Pakistan, più Israele. Altri, più pericolosi, aspiranti bussano alle porte del «club», come la Corea del Nord e l'Iran. Il Trattato antiproliferazione del 1968 (Tnp) appare ormai esausto, mentre incombe una nuova terribile minaccia, quella che il terrorismo islamista arrivi a impossessarsi di un ordigno atomico. Purtroppo, non ci sono rimedi globali a questa situazione. Il mondo nato a Hiroshima durerà per sempre, perché la bomba non è «disinventabile», e anche se si realizzasse l'utopia di distruggerne tutti gli esemplari, qualcuno da qualche parte saprebbe come rifabbricarla.

Il solo rimedio, pragmatico, è nell'impegno costante delle potenze più responsabili a tenere sotto controllo l'uso, anche civile, ma facilmente ribaltabile, della nuova e rivoluzionaria energia, e a spegnere gli incendi politici che alimentano le ambizioni nucleari. O forse è un'utopia anche questa?

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