Da La Repubblica del 02/08/2005

Scontata l'ascesa al trono di Abdullah, ma la scelta dell'ottuagenario Sultan come reggente non garantisce stabilità

L'ombra di una faida dinastica su un regime di soli anziani

Troppo lente finora le aperture alla democrazia

Proibita la predicazione a un migliaio di imam pro-Jihad, attraverso una serie di incontri offerta visibilità alle donne, alla minoranza sciita e ai liberali
Sultan investì nel Carlyle Group, dove convergono gli interessi dei Bush e di facoltosi come i Bin Laden
Il nuovo re ha avviato alcune limitate riforme che aprono prospettive interessanti per tutto il mondo islamico

di Guido Rampoldi

Sempre con gli occhiali scuri che gli occultavano lo sguardo, da dieci anni il malandato re Fahd non aveva altra funzione che quella di rappresentare visivamente l'enigmatica monarchia saudita. Era egli stesso un enigma: forse ancora presente a se stesso, forse da tempo non più. Cosa si agitasse dietro quelle lenti affumicate non era meno imperscrutabile di quel che accadeva e accade nel vertice supremo della famiglia oggi più importante della Terra, lì dove si decide il futuro del primo produttore al mondo di petrolio.

Però questo era chiaro: avvicinandosi la morte del re, i Saud avevano finalmente l'occasione di decidere la linea di successione al trono, risolvendo una volta per tutte la questione più pericolosa per la stabilità del Paese. Se era scontato che il principe reggente Abdullah sarebbe diventato il nuovo sovrano, funzione che nei fatti ricopriva ormai dal 1996, era cruciale decidere chi sarebbe divenuto il principe reggente.

La razionalità suggeriva che la famiglia nominasse a quel ruolo un principe della nuova generazione, tra i quaranta-cinquantenni in genere laureati all'estero e comunque più in sintonia con il mondo contemporaneo dei vetusti fratelli di re Fahd. Era l'occasione per dare al vertice saudita un assetto meno precario. Ma quell'occasione è stata sprecata. Forse perché troppi i candidati al trono, e ciascuno spalleggiato da un potente genitore, i Saud hanno preferito rimandare la scelta e rifugiarsi nella tradizione.

Così adesso a Riad siedono un re ottuagenario e un principe reggente quasi coetaneo, suo fratello Sultan, cui l'anno scorso fu asportato un tumore. La corona non ha una linea di successione definitiva, i giochi restano aperti e il regime esposto al rischio di una faida dinastica che, come due secoli fa, ne segnerebbe il tracollo.

Però almeno l'Arabia Saudita adesso ha un re nella pienezza delle sue funzioni, non più uno spettro inchiodato su una sedia a rotelle. Non si può dire che il nuovo sovrano, Abdullah, corrisponda alla nostra immagine dell'arabo "filo-occidentale": non parla l'inglese, non ha una laurea in un'università americana, è stato educato dagli ulema, ama il deserto e le tradizioni beduine. Ma forse per questo è più affidabile, o almeno più sincero di certi strani ibridi arabi che consideriamo nostri amici e alleati fin quando non ne scopriamo la doppiezza. La destra americana, che di doppiezza nella penisola arabica non è stata seconda a nessuno, l'ha tenuto a lungo in sospetto. Tuttora la sua stampa è dubbiosa. Ma se guardiamo ai fatti, Abdullah è colui che affida ad istruttori americani la sua amata Guardia nazionale, le truppe più fedeli ai Saud; e che avvia alcune riforme, sia pur timidamente e perché costretto dall'incalzare del terrorismo interno. Anche se con limiti enormi (innanzitutto questo: nessuno può criticare i Saud), la stampa oggi gode d'una libertà smisurata rispetto a qualche anno fa.

La polizia ha proibito di predicare ad un migliaio di imam che incitavano alla guerra santa. E Abdullah ha promosso un "dialogo nazionale" che attraverso una serie di incontri ha offerto visibilità a chi prima doveva restare invisibile: la minoranza sciita, le donne, i liberali. Tutto questo avviene con una lentezza esasperante e una prudenza eccessiva. Però le prospettive sono interessanti. Bene o male il "dialogo nazionale" introduce principi che spartiscono con quanto le democrazie occidentali conoscono come pluralismo, diritti umani, Stato di diritto liberale. Non sembra più impossibile una cauta convergenza verso un terreno condiviso. E poiché tutto questo avviene nel Paese della Mecca, il tempio verso il quale ogni giorno pregano 1300 milioni di musulmani, l'evoluzione saudita potrebbe sprigionare un islam dialogante, disarmando i profeti occidentali o musulmani dello "scontro tra civiltà". Le ricadute sarebbero enormi. Difficile però che alla sua età Abdullah sia capace di dare slancio ad una direzione di marcia sgradita alla potente teologia sunnita, fautrice d'un islam arcigno e puritano. Finora il suo motto è stato quel «Pazientate» opposto ai riformisti, una sessantina, che due anni fa gli consegnarono una petizione (i due che non accolsero il suo invito si trovano tuttora in galera).

Inoltre il principe reggente, Sultan, sembra più conservatore di Abdullah. E poiché è da quarant'anni il ministro della Difesa, dunque controlla le Forze armate, la sua opinione ha un peso speciale. Fu plateale il modo in cui liquidò in via di principio la possibilità di arrivare in futuro ad elezioni parlamentari: se ne sarebbero avvantaggiati, disse, solo «gli illetterati», cui la politica avrebbe dischiuso una carriera immeritata. Al contrario di suo fratello Abdullah, all'epoca dubbioso, Sultan fu al fianco di Washington durante la guerra del Kuwait. In seguito anch'egli investì nel Carlyle Group statunitense, una società d'investimenti in cui convergevano gli interessi dei Bush e di alcuni principi, ma anche di facoltosi come i Bin Laden, o come Abdulrahman bin Mahfouz, direttore di quella fondazione islamica Muwafaq che Washington ha definito «una facciata di al Qaeda». In passato Sultan passava per filo-americano, come è tuttora suo figlio Bandar, fino a ieri ambasciatore a Washington e legato da amicizia personale ai Bush. Ma dopo l'invasione dell'Iraq le posizioni filo-americane non sono molto popolari neppure a corte. Il principe reggente oggi non sarebbe più un entusiasta dei Bush; suo figlio Bandar non è più ambasciatore a Washington (l'ha sostituito il principe Turki, un ex capo dei servizi segreti sauditi che a suo tempo fu tra i sostenitori dei Taliban e oggi critica apertamente la politica estera americana).

Al di sotto del re e del reggente il vertice saudita ha un assetto vago. In teoria all'apice della monarchia dovrebbero esservi i sei fratelli di Fahd, figli di primo letto di re Abdulaziz. Nella realtà è più influente un "consiglio di famiglia" cui partecipano anche alcuni fratellastri di Fahd, non tutti i Sudeiri ma tutti i principi-ministri di maggior peso. A complicare le cose concorre la disparità delle posizioni politiche rappresentate all'interno di quel vertice, e ancor più nella sterminata schiatta dei settemila principi Saud, dove vi sarebbe di tutto: conservatori, liberali, bigotti, cosmopoliti, estremisti... Nei momenti cruciali la famiglia bene o male è riuscita a tener fede alla sua dote migliore, il pragmatismo ferreo col quale re Abdulaziz costruì lo Stato in alleanza non con gli ulema o con i guerrieri beduini, ma con i mercanti di Gedda.

Però un Paese con un vertice così irrisolto sarà sempre pericolosamente esposto ai colpi della sorte.

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