Da La Repubblica del 24/07/2005

Birmania, il regno della paura in mano ai generali fantasma

Tra la gente di Rangoon piegata da 40 anni di regime

Le sanzioni dell'Occidente non impoveriscono i militari al potere, ma ricadono sulla gente comune
Ogni protesta è repressa nel sangue o stroncata sul nascere dai controlli capillari sulla società
Aung San Suu Kyi è un fantasma in patria, prigioniera com'è della sua stessa casa
Il potente gruppo dei militari al governo e i loro soci controllano tutta l'economia

di Raimondo Bultrini

RANGOON - Difficile vederli in strada, celati dietro i vetri scuri delle loro Mercedes in corteo con le bandierine al vento. Ma tutte le mattine e tutte le sere appaiono nelle loro uniformi verde-rana sui telegiornali nazionali (uno governativo, l'altro dell'esercito, titolare di 18 ministeri su 20) per inaugurare ponti e strade che spesso si rompono pochi mesi dopo, grattacieli che non hanno elettricità sufficiente per far funzionare ascensori e pompe che spingano l'acqua ai piani alti. Sono i generali, i colonnelli, i capitani, i tenenti del «Consiglio per la Pace e lo Sviluppo», come si fa chiamare la giunta militare che guida il paese dal 1962 incurante dell'ostilità popolare, degli appelli internazionali per liberare la leader della Lega per la democrazia Aung San Suu Kyi e delle sanzioni economiche occidentali. Di quest'ultime ai militari non interessa molto: fanno infatti affari con molti paesi asiatici, inclusa la progressista India, svendendo le enormi risorse naturali del Paese.

Per seguire gli eventi internazionali gli impotenti abitanti di Rangoon ascoltano le radio libere in lingua birmana trasmesse dagli Stati Uniti, dall'Inghilterra, perfino dalla Norvegia. Ne discutono poi nelle sale da tè, unico luogo (spesso controllato) dove si esercita il diritto virtuale alla democrazia.

Per capire la Birmania basta fare un giro sul treno circolare che trasporta decine di migliaia di cittadini avanti e indietro dalle periferie, dai mercati e dal centro. Alla biglietteria si deve mostrare la carta d'identità per poi salire su vecchi vagoni che sembrano giocattoli per bambini del dopoguerra. Fermano a ogni stazioncina in terra battuta, dove palmizi e baracche si alternano mentre uomini e donne in longyi, la gonna tradizionale, trasportano grandi fasci di verdure in spalla. Mèta comune per venditori e clienti è il mercato di Mingaladan, polso dell'economia di un paese dove ci si affanna per guadagnare o risparmiare pochi kyatt al giorno necessari alla sopravvivenza. Prima di raggiungere i banchi di frutta, verdure, spezie e salse di pesce, i contadini sono già stati immersi per ore negli acquitrini o sotto il sole cocente con bufali e buoi, essenziali oggi come centinaia di anni fa. Solo a sera torneranno nel loro alloggio di bambù e lamiera, dopo un altro estenuante viaggio. Una volta a casa devono andare al pozzo per prendere l'acqua, procurare la benzina per il generatore se possono permetterselo, cucinare qualcosa con la legna raccolta tra le boscaglie e prepararsi per la prossima giornata.

E' questa lunga abitudine alle ristrettezze, comune anche a molti operai e impiegati, che fa del popolo birmano il più paziente dell'Asia, vittima di pochi militari che registrano ogni spostamento degli abitanti e hanno costruito per sé residenze con campi da golf e piscine, luce e acqua corrente 24 ore su 24, mentre ai soldati semplici e ai funzionari governativi vanno privilegi come quote extra di benzina, auto prive del pesante dazio doganale, e un discreto arbitrio negli incarichi amministrativi.

In giro per Rangoon, dove prostituzione e gioco d'azzardo sono vietati ma coperti da ufficiali corrotti, la presenza militare non è massiccia come ci si aspetterebbe da un apparato di esercito e polizia calcolato in un soldato o poliziotto ogni 100 abitanti. A parte i misteriosi responsabili delle tre bombe che due mesi fa hanno ucciso una cinquantina di innocenti in altrettanti supermercati, i nemici armati della giunta sono infatti fuori da Rangoon, negli Stati delle minoranze Shan, Karen, Kachin, dove le denunce di abusi e trasferimenti forzati della popolazione sono all'ordine del giorno.

I dissidenti intellettuali di Rangoon si guardano bene dal rischiare di finire nelle prigioni dove da oltre 40 anni i detenuti vivono in perenne stato di denutrizione, sottoposti a torture e restrizioni, mentre gli studenti - protagonisti delle proteste domate nel sangue - sono da anni divisi in quattro atenei diversi nella estrema periferia, circondati e nascosti da reticolati, tra campi di grano e fattorie di maiali. Per questo la città sembra oggi pacifica e laboriosa, con le sue grandi arterie di alberi tropicali percorse da un traffico di auto lussuose e moderne alternate a vecchie carcasse.

Nei giardini sul lago Inya dove i bambini giocano con gli aquiloni una serie di aiuole fiorite e caffè alla moda coprono l'asfalto insanguinato 17 anni fa, durante le repressioni studentesche. E occultati come i luoghi della tragica memoria sono la casa dove vive agli arresti Aung san Suu Kyi, le basi dell'esercito lungo la Pyay road, i luoghi di interrogatorio e tortura, le cliniche dei tanti malati di Aids, perfino le parate militari. Ma invisibili alle masse sono anche i rubini sulla punta del grande stupa di Shwe Dagon, uno dei monumenti più simbolici dell'Asia buddista: per vederli c'è un solo telescopio strettamente riservato a Vip e autorità dello Stato.

Il regime, ufficialmente buddista, imprigiona i monaci se si rifiutano di ricevere offerte dai militari e ha imposto agli abati del tempio di non accettare donazioni per la lunga vita di Aung San Suu Kyi o di altri membri della Lega nazionale per la Democrazia, uscita vincente dalle elezioni politiche concesse nel 1990 e poi cancellate d'imperio.

Inavvicinabile è ovviamente lo stesso cervello e cuore pulsante del regime a «Eight miles township», la «Cittadella di Ottomiglia» vicino all'ex manicomio dove i pazzi sono stati sfrattati per far posto ai generali e all'edificio bunker che fu del Partito socialista birmano. A Ottomiglia ogni giovedì si reca a impartire direttive l'attuale numero uno del regime, il generalissimo Than Shwe, salito al potere dopo che il primo successore di Ne Win cominciò a vaneggiare di passate reincarnazioni. Da lui ricevono ordini direttamente il neo primo ministro Soe Win, ex comandante dei plotoni che fecero fuoco sugli studenti rivoltosi nell'88, i vari ministri con le stellette e il numero due della giunta, il comandante dell'esercito Maung Aye, che dopo la resa di un battaglione di ribelli dell'etnia Karen calpestò in segno di spregio la loro bandiera.

Spesso Than Shwe, il cui unico svago è il golf, si consiglia col suo astrologo personale e con la sua amata moglie, una donna tribale dei Pa O, che lo ha convinto ad affidare il comando dei servizi segreti a un nipote. Molte decisioni vengono prese durante la cena di famiglia a casa Than Shwe, allargata ad amici fidati e potenti uomini d'affari come Te Za, un playboy che smercia armi e spazzolini da denti, costruisce strade e industrie, gestisce banche private e società finanziarie dei generali. Te Za ha costruito una torre di vetro con ristoranti e osservatorio proprio sopra uno dei monumenti più belli di Pagan, la città tempio dell'undicesimo secolo. Per salire si pagano dieci dollari, diecimila kyatt locali. Con questi soldi quasi il 40 per cento dei birmani è costretto mediamente a sopravvivere un anno. Per questo su 40 milioni di abitanti quasi due sono emigrati nella sola Thailandia, tra foreste infestate di serpenti e guerriglieri disposti a tutto per un piatto di zuppa.

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