Da La Stampa del 25/07/2005

Il bersaglio è Mubarak

di Igor Man

«Terrorismo in franchising» l’hanno definito i guru del Royal Institute of International Affairs. Abu Nidal, dice niente questo nome? E’ quello del terrorista palestinese che offriva i suoi servigi negli Anni 70-80, uno psicopatico che uccise più palestinesi (e innocenti: vedi la strage di Fiumicino) che «nemici sionisti». Era, quella di Abu Nidal, una anonima assassini senza anonimato, una conchiglia vuota di volta in volta riempita da questo o quel clan integralista; dietro pagamento. Condannato a morte (in contumacia) da Arafat, espulso dalla Siria aveva trovato ospitalità a Baghdad ma, pressoché alla vigilia dell’invasione americana, la polizia di Saddam lo uccise.

Abu Nidal era oramai il simulacro di se stesso, una etichetta scaduta. I proiettili nel ventre il sigillo d’una morte per implosione. La stessa fine per implosione attende Osama bin Laden (o il suo clone, fa poca differenza). Anche il suo ideologo prêt-à-porter, l’egizio Zawahiri, prima o poi svanirà. E con lui e i suoi sciagurati adepti si dissolverà il disegno del nuovo Califfato.

L’attentato alla vacanza low cost di Sharm, come quello di Taba nell’ottobre del 2004, rientra sì nella strategia del jihad globale ma ha nome, cognome e indirizzo precisi: Mubarak. Va qui detto che Zawahiri è stato il portaborsa di Abdel Salam Farag, il teologo artefice dell’assassinio di Sadat. Le idee di Farag sono alla base delle periodiche farneticazioni di Osama che le trova nel «Precetto assente», breviario di fede e di violenza. Si dà per certo che Sadat sia stato ucciso per aver fatto la pace con Israele, «con gli ebrei». No. La pace con Israele è soltanto una delle colpe di Sadat, al quale venivano contestati in primo luogo la infitah (la politica della porta aperta al capitale straniero) e i suoi legami con l’Occidente, segnatamente con Washington. Le stesse colpe di cui viene accusato Mubarak, prossimo al quinto mandato. Gli egiziani 24 anni fa salutarono con simpatia l’avvento di Mubarak (giovanissimo vice presidente), gran lavoratore, onesto, «fratello saggio» del suo miserabile popolo. Egli prometteva la fine del determinismo selvaggio dello sviluppo del sottosviluppo.

Ma il potere logora e il Mubarak di oggi non è più il raiss della speranza. Paradossalmente gli Usa, che non approvano la condotta faraonica di Mubarak, si vedono costretti a sostenerlo poiché dopo di lui c’è l’incognita dei Fratelli musulmani, in non scarsa consonanza con al Qaeda.

Secondo gli esperti, la strage di Sharm mira a colpire Mubarak, «corrotto sulla terra», mentre gli attentati (annunciati) in Italia, in Danimarca intendono punire «i complici dei regimi» arabi «venduti a McDonald’s». Se e quando arriverà l’attentato sarà dura. Ma sarebbe sciocco, e dunque controproducente, fasciarci subito la testa. Lasciamo lavorare i nostri dell’intelligence che ben
conoscono il loro difficile e non sempre apprezzato mestiere. Invece di suggerire «riforme», forse necessarie, dei Servizi, ma che abbisognano di tempi lunghi, facciamo sentire a chi ci protegge solidarietà e stima. E vigiliamo, beninteso. Ma senza isterismi, fuori dalla «ideologia del tabloid» che porta al sospetto, al razzismo, alla pistola facile. Il terrorismo islamista, peste del nuovo secolo, non si sconfigge col «dagli all’untore» bensì con la pazienza, con la fermezza. Come al tempo plumbeo delle Br. Certo, al pari di quella, durata dieci anni, la resistenza alla follia omicida di Osama & C. implica il rifiuto di cedere a una «logica di guerra globale». Volta, questa, a coinvolgere anche quei musulmani con cui pacificamente conviviamo. Per converso ogni tentativo di appeasement si trasformerebbe in un tragico boomerang.

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