Da La Repubblica del 09/06/2005

Nasi rifatti e voglia d'atomica le nuove passioni di Teheran

Crescono i consumi ma gli ayatollah negano le libertà

Da anni la giovane borghesia urbana chiede riforme e incassa delusioni
In Iran si può vivere molto meglio di quanto s'immagini polizia segreta permettendo
Le ragazze sono riuscite a trasformare il chador in un abbigliamento vezzoso
E l'Iraq dà una mano alla teocrazia prefigurando una scelta tra caos e stabilità

di Guido Rampoldi

TEHERAN - Vedi in giro molti nasini incerottati, rifatti di fresco. Le iraniane spiegano questa corsa al chirurgo plastico con l'obbligo del foulard: i difetti d'un profilo risultano più evidenti quando l'ovale è incorniciato da un fazzoletto. Ma rifarsi il naso è diventato così comune che ci si può leggere un'insoddisfazione generale, il desiderio d'un'altra identità, tanto più confuso perché mancano modelli cui ispirarsi. Da anni la giovane borghesia urbana colleziona delusioni. Aveva creduto nella sinistra islamica, i cosiddetti "riformisti", e nel suo Gorbaciov, il presidente Khatami: ma il regime ha sabotato Khatami e i suoi otto anni finiscono senza le riforme politiche attese. Nel frattempo l'avventura americana in Iraq ha dato una mano alla teocrazia. Ha cambiato la prospettiva: «Quando la gente guarda a quanto avviene in Iraq - ci dice l'analista Karim Sadjadpour - la scelta non è più tanto tra democrazia e autoritarismo, ma tra caos e stabilità». Infine il boom demografico degli anni scorsi sta rovesciando su un mercato del lavoro già abbastanza saturo una media di 900mila giovani ogni anno. Così adesso quest'Iran sotto i trent'anni (quasi il 70 per cento della popolazione) è tentato dal patto che gli offre l'ala pragmatica del regime: se non ci disturbate vi promettiamo pace, un lavoro, e la possibilità di scegliervi uno stile di vita abbastanza libero. Molti sono confusi: se in queste condizioni l'offerta fosse ragionevole? Dopotutto in Iran si può vivere molto meglio di quanto s'immagini in Occidente, se la polizia segreta non ti prende di mira.

Nei sei mesi trascorsi in Italia Shadì divideva i nativi in due tipi: quelli che ignoravano tutto dell'Iran salvo che fosse un Paese arabo (gli arabi sono appena il 2 per cento della popolazione) e quelli che la compativano. «Poverina, che vita orribile sotto quel chador… puoi uscire di casa da sola?». Ma la vita che adesso Shadì conduce a Teheran non è molto diversa da quella che conduceva a Milano. È vero che non può uscire di casa se non ha un foulard sulla testa, ma le gloriose ragazze di Teheran sono riuscite a trasformare anche il chador ("tenda", perché somiglia ad una tenda nera da cui sbuchi un viso) in un abbigliamento vezzoso, spezzandolo in due capi: un grembiulino attillato e corto, nero; un fazzoletto che può essere di seta indiana colorata e lasciare scoperta oltre la metà della testa. Il sistema ha conosciuto la parabola di tutti i puritanesimi, che elevando a dismisura la soglia della moralità rendono la virtù quasi impossibile e la trasgressione più eccitante. Così ha prodotto una giovane borghesia emancipata, quando non libertina, che può sfruttare tutte le pieghe della tortuosa sharia.

Shadì non può abbracciare in pubblico un ragazzo; ma può dormire con lui in albergo dopo aver contratto un "matrimonio temporaneo" (per la durata che la coppia decide) contemplato dalla legge dell'islam sciita. Può trovare solo sul mercato clandestino le poesie di Hafez o di Kayyam nella versione originale, non purgata di ogni accenno al vino; ma nel frigo ha un bottiglione di costosissimo rosso armeno (essendo cristiani, gli armeni sono autorizzati a produrre vino "per uso personale"), d'un colore amaranto e aspro al palato. Al mare frequenta spiagge cui i maschi non possono accedere; a Teheran feste private consacrate agli eccessi, e se lo vuole, perfino un ecstasy-party dove accadono le stesse cose che accadono in Europa. Tutto questo riguarda solo una parte della borghesia giovane, ma anche nel resto della società le donne non sono schiave sottomesse: «Mentre i maschi sono costretti presto a rattrappirsi dentro un ruolo rigido - spiega un'orientalista da vent'anni in Iran - le femmine crescono più libere e da adulte finiscono per diventare il centro dell'autorità familiare». Anche se il regime resta misogino, i rapporti tra i due sessi funzionerebbero come in una nota barzelletta iraniana: un uomo va al bazar con la moglie per comprare un orologio; valuta, discute, contratta; e la moglie in disparte, zitta; quando finalmente ha concordato un prezzo le rivolge un'occhiatina timida; ma lei scuote il capo e l'affare sfuma.

Alla vigilia delle elezioni presidenziali (17 giugno) il giovane ceto medio ora si chiede se il probabile successo d'un candidato "conservatore" comporterà un irrigidimento dei codici morali. I più ritengono che non accadrà. La teocrazia conservatrice pare aver capito quanto sia vano contrastare i modelli di comportamento importati dalle tv satellitari, travolgenti («Anche i ragazzi si truccano secondo i modelli delle tv satellitari» titolava a fine maggio il giornale dei "riformisti", in merito tolleranti ma perplessi). I condominii con la parabola, ormai tanti, possono scegliere tra due dozzine di canali in lingua persiana, il farsi. Alcuni trasmettono dall'estero (tra questi, la tv dei ribelli in pantofole che da Los Angeles due anni fa incitava gli iraniani all'insurrezione). Per contrastare la concorrenza, la tv statale ha importato casti telefilm europei, prodotto serial di contenuto edificante, puntato sul calcio; ma i tg continuano a raccontare i fatti del giorno secondo le convenienze del regime, i suoi schemi ideologici, la sua vocazione paternalista; e i mohamemì, quelli col turbante, appaiono nello schermo con una cadenza fitta. Il risultato pare infelice ma illustra bene speranze e rinunce del regime. Ormai non pretende più d'esportare con le armi la rivoluzione islamica nel mondo. Però neppure è diventato d'un tratto liberale e pacifico. Non ha ancora una chiara idea dell'Iran senza rivoluzione, ma sa che al centro dovrà esserci l'arma atomica. Piace all'apparato militare. Ma soprattutto piace agli iraniani, almeno al momento: stando ai sondaggi quattro iraniani su cinque vogliono un Iran con la Bomba. In altre parole sono favorevoli al programma nucleare anche tanti che sperano di liberarsi della teocrazia. E anzi spesso sono i più entusiastici. Però l'opinione pubblica (non i militari) probabilmente perderebbe interesse nella Bomba se il programma nucleare fosse barattabile con strumenti di benessere, come l'accesso al Wto e massicci investimenti.

In sostanza l'iraniano medio che il regime vorrebbe costruire è un consumatore che ha rinunciato ad essere un cittadino, e un nazionalista che non può essere un patriota perché non può esercitare pienamente le libertà civili. Ma come consumatore già adesso è abbastanza libero. Shadì può comprare in strada, dai venditori ambulanti, tutti i libri e i dvd di film apparsi di recente in Europa. Il mercato dei dvd "non autorizzati" è ormai così accettato che i giornali recensiscono anche pellicole mai apparse nei cinema iraniani (feroci critiche ha suscitato l'"Alessandro", accusato di oltraggio alla nazione perché mostra i persiani vestiti come arabi). In alcune librerie Shadì troverà l'ubiquo Coelho, Via col vento, romanzetti rosa americani, la biografia di Hillary Clinton, storie dell'Impero persiano, perfino marxisti come Fanon ed effigi del Che Guevara (da Bookcity, nella Teheran benestante); in altre testi di teologia che non convalidano l'idea secondo cui l'islam ha ordinato ai fedeli di farsi governare dagli ayatollah. Ma se da queste letture Shadì concludesse che la Guida suprema non ha alcuna legittimità, o semplicemente che quello e i suoi fidi meritano qualche critica, non potrebbe scriverlo su un giornale. Se lo facesse dovrebbe vedersela con il procuratore di Teheran, il temutissimo Sayyd Mortazavì.

Basso, ipocrita e furbo, il quarantenne Mortazavì è la perfetta rappresentazione d'un sistema bifronte. Rappresenta lo Stato legale ma allo stesso tempo lo Stato parallelo, quello che ricorre ad arresti illegali, prigioni segrete e forme di tortura. I giornalisti più giovani ne fanno la conoscenza durante il corso organizzato dall'università islamica, dove Mortazavì insegna protetto da un nugolo di guardie del corpo che dispone ovunque nella facoltà. La ragione per cui è tanto odiato è nelle testimonianze raccolte all'estero dall'attendibile Human Rights Watch. Giornalisti e studenti che hanno avuto a che fare con il procuratore raccontano d'un ometto senza scrupoli, servile e subdolo. Non si preoccupa di nascondere d'essere eterodiretto: secondo varie fonti, durante i processi conferisce pubblicamente al telefono con funzionari governativi. Il suo motto è: «Non ho bisogno della legge, io sono la legge». Consiglia ad alcuni imputati di rinunciare alla difesa («Se al processo non c'è il tuo avvocato è meglio»). Ad altri dice: ci sono troppi giornalisti in aula, se accetti il processo a porte chiuse poi ti libero. Chiama al telefono un editore e avverte: se non la smetti di pubblicare gli articoli del tale giornalista ti chiuderemo il giornale, «a Sua Eccellenza (Agha, la Guida suprema) non piace che quello scriva». Chiama un opinionista e gli fa: se non vuoi tornare in galera non scrivere più.

Inoltre Mortazavì sovrintende, in genere senza farsi vedere, agli interrogatori nelle carceri segrete, dove gli imputati sono detenuti dentro loculi d'un metro per due con la luce sempre accesa, e spesso picchiati, finché non confessano. E insabbia le inchieste più delicate. Riesce a chiudere senza un indiziato il processo per l'assassinio della giornalista iraniano-canadese Zhara Kazemi, uccisa dentro il carcere di Teheran, Evin. Eppure se guardiamo al passato il metodo Mortazavì è un progresso. Nel 1997 ottantuno intellettuali furono assassinati da squadre della morte. Per aver accusato il regime nel libro-inchiesta "La casa dei fantasmi", il giornalista Akbar Ganji, trattato dalla procura di Teheran, è da anni in galera. Ma non è stato ammazzato, e "La casa dei fantasmi", arrivato alla venticinquesima edizione, è tuttora in libreria. Come ci dice un giornalista iraniano, «in qualche modo abbiamo la libertà d'opinione. Però non abbiamo la libertà del dopo-opinione, quando ci arrestano». Secondo il rapporto 2004 di Human Rights Watch, «nessuno sa quante persone siano detenute nelle prigioni iraniane a causa della pacifica espressione del proprio pensiero».

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