Da La Stampa del 06/06/2005
Affossare l’Unione dopo averla sostenuta potrebbe essere una tattica di corto respiro
Per Tony una mossa a doppio taglio
di Lucia Annunziata
Tony Blair è sempre stato fortunato, per sua stessa ammissione. La decisione di rifiutare qualunque accordo con la Francia e la Germania sul futuro dell’Europa mette tuttavia a dura prova questa sua fortuna. Nel momento in cui, oggi, lunedì, il suo ministro degli Esteri Jack Straw formalizzerà, come si prevede, il seppellimento del referendum europeo da parte dell’Inghilterra, la decisione - è vero - toglierà anche al Premier inglese una rogna giacente da tempo sul suo tavolo, confermando dunque ancora una volta che la fortuna lo aiuta. Ma è anche vero che la storia con la maiuscola potrebbe svelare questa mossa come un punto di svolta in cui un tatticismo così mirato alla sopravvivenza, vira senza accorgersene nella sconfitta.
In altre parole, mettendo in frigorifero il referendum oggi, Tony Blair rompe per la prima volta il patto di ferro su cui si regge dal dopoguerra l’Europa: la stretta collaborazione fra Germania, Inghilterra e Francia. La fine di questa «architettura» (parola cara agli Europeisti) può avere due letture e due esiti. Potrebbe essere un gesto di pulizia, la rottura necessaria per creare nuovi equilibri, il giusto rifiuto di un passato sclerotizzzato. Ma potrebbe anche essere, semplicemente, una sconfitta: dell’Europa, e in futuro, dello stesso Primo Ministro che se ne accolla la responsabilità.
Purtroppo per lui e per noi, il vero significato delle decisioni di queste ore non sarà chiaro per un po’ di tempo. Ma ricominciamo daccapo. Soprattutto per vedere qual è il percorso di Londra e come forse oggi varrebbe la pena di non sorprendersene. Nella storia dell’Inghilterra, che pure è riuscita a dominare il mondo, l’Europa è sempre stata una sorta di dannazione. Senza andare troppo indietro, e anche a lasciar perdere le eroiche note dei nazismi, dei fascismi e delle resistenze (anche queste ultime mai molto amate al di là della Manica), basta guardare agli ultimi due decenni per vedere che ostacolo essa abbia costituito per i governi inglesi: Dame Thatcher che pure sopravvisse ai terroristi e ai minatori, cadde sulla moneta comune, e il suo erede, Major, non recuperò mai la divisione su Maastricht.
Così anche per Tony Blair l’Europa ha finito con il configurarsi, al di là delle sue aspirazioni, una difficile tappa della sua carriera politica. Tanto più dopo le elezioni che ne hanno visto, solo poche settimane fa, una vittoria di misura piuttosto stretta che gli ha tolto quello spazio di manovra pressocchè indefinito datogli dalla stragrande maggioranza nei primi due mandati. Parte di questa riduzione di spazio significa oggi la necessità di ascoltare aree politiche quali i Liberal Democrats che hanno ottenuto buoni risultati, ma anche di rendere conto a stretti alleati come Gordon Brown, il suo amico/nemico ministro del Tesoro, che è su posizioni freddissime nei confronti dell’Europa e alla cui pressione sin dall’inizio del percorso del New Labour è stata dovuta la scelta sulla moneta unica.
Ma al di là delle relazioni parlamentari, l’Europa e tutto quello che questa sigla ha finito con il significare - fusione di popoli, allargamento agli ex Paesi dell’Est, globalizzazione - è stato uno dei grandi deterrenti della sfida delle elezioni politiche, in cui i sentimenti del rigetto comunitario hanno giocato a favore dei conservatori e anche della forte autoreferenzialità del vecchio sindacalismo, e del vecchio Labour. Non a caso fra i primi che hanno preso atto dell’inevitabile fine di un coinvolgimento britannico con il referendum continentale è stato un amato vecchio leader della sinistra pre-Blair, Lord Kinnock che ha dichiarato pochi giorni fa «inevitabile» la messa a riposo di ogni voto sulla Costituzione europea.
Ma, appunto, stiamo parlando di conservatori e di vecchio Labour. In queste ore val la pena invece di ricordare quanto l’ideale europeista sia stato funzionale all’affermarsi di una nuova sinistra in Inghilterra. Tony Blair nella sua fortunata e veloce affermazione alla fine degli Anni Ottanta, si presentò sulla scena inglese come un europeista convinto, concependo, e facendo così concepire alla sua area politica, l’esistenza di un’unica sinistra europea, i cui confini erano un po’ più vasti di quelli di un’isola o di una nazione. Va ricordato il forte ruolo che giocò nei suoi primi anni al potere proprio attraverso la platea europea - cui si presentava più vicino e più efficace nelle somiglianze dell’America di Clinton.
Pensiamo al duello con Jospin, il leader Francese da cui lo divideva quasi tutto; ai convegni italiani; agli incontri dentro e fuori dal cerimoniale ufficiale con i leader tedeschi. Tutte battaglie a cui l’attuale premier ha legato ben più che una azione di politica estera: la famosa «Terza Via» si poteva leggere come una struttura di politica estera parallela ai governi, e anche come la sostituzione della classica internazionale con principi delle comunità moderne: mercato, integrazione, confini aperti. Del resto, la «Terza Via» nasce da un documento comune che firmano nel 1999 Blair e Schroeder, nel cui testo viene espressa l’ambizione di elevare l’esperienza dei governi di questi due leader a modello per una nuova stagione europea di crescita e giustizia sociale.
A fronte di queste ambizioni passate la rinuncia del Blair di oggi all’unità europea acquista un peso che va ben al di là dei calcoli elettorali. Uno dei suoi amici più fidati, come Peter Mandelson, uomo non a caso scelto per gestire il complesso dossier Bruxelles, può commentare in queste ore che la decisione di cancellare il referendum «dà a Tony il vantaggio di una nuova partenza». Ma rinunciando all’Europa Blair rischia di rinunciare a un sostanzioso pezzo della sua identità passata, nonchè a un esercizio di sovranità per il futuro. Non a caso già ieri un dubbio del genere circolava nei quotidiani inglesi.
Se Blair infatti crede che l’Inghilterra debba rimanere al centro dell’Europa, avrebbe dovuto comunque tenere il referendum e rispettarne il risultato - anche se negativo per lui - per farne la base di una politica condivisa per il futuro. Tenere fede alle proprie convinzioni non avrebbe pagato forse per l’oggi; ma l’alternativa non rischia forse di essere una lenta erosione della autorevolezza della stessa Inghilterra, oltre che del suo attuale leader?
Una risposta a questa domanda l’ha data ieri indirettamente Blair, quando, in procinto di volare a Washington per conquistare Bush alla causa dell’Africa in vista del prossimo G8, ha dichiarato a un giornalista: «L’Africa vale la pena di una battaglia; l’Europa, così com’è no». Con il risultato di far apparire anche l’Africa - una più che degna causa - il diversivo di una politica deragliata.
In altre parole, mettendo in frigorifero il referendum oggi, Tony Blair rompe per la prima volta il patto di ferro su cui si regge dal dopoguerra l’Europa: la stretta collaborazione fra Germania, Inghilterra e Francia. La fine di questa «architettura» (parola cara agli Europeisti) può avere due letture e due esiti. Potrebbe essere un gesto di pulizia, la rottura necessaria per creare nuovi equilibri, il giusto rifiuto di un passato sclerotizzzato. Ma potrebbe anche essere, semplicemente, una sconfitta: dell’Europa, e in futuro, dello stesso Primo Ministro che se ne accolla la responsabilità.
Purtroppo per lui e per noi, il vero significato delle decisioni di queste ore non sarà chiaro per un po’ di tempo. Ma ricominciamo daccapo. Soprattutto per vedere qual è il percorso di Londra e come forse oggi varrebbe la pena di non sorprendersene. Nella storia dell’Inghilterra, che pure è riuscita a dominare il mondo, l’Europa è sempre stata una sorta di dannazione. Senza andare troppo indietro, e anche a lasciar perdere le eroiche note dei nazismi, dei fascismi e delle resistenze (anche queste ultime mai molto amate al di là della Manica), basta guardare agli ultimi due decenni per vedere che ostacolo essa abbia costituito per i governi inglesi: Dame Thatcher che pure sopravvisse ai terroristi e ai minatori, cadde sulla moneta comune, e il suo erede, Major, non recuperò mai la divisione su Maastricht.
Così anche per Tony Blair l’Europa ha finito con il configurarsi, al di là delle sue aspirazioni, una difficile tappa della sua carriera politica. Tanto più dopo le elezioni che ne hanno visto, solo poche settimane fa, una vittoria di misura piuttosto stretta che gli ha tolto quello spazio di manovra pressocchè indefinito datogli dalla stragrande maggioranza nei primi due mandati. Parte di questa riduzione di spazio significa oggi la necessità di ascoltare aree politiche quali i Liberal Democrats che hanno ottenuto buoni risultati, ma anche di rendere conto a stretti alleati come Gordon Brown, il suo amico/nemico ministro del Tesoro, che è su posizioni freddissime nei confronti dell’Europa e alla cui pressione sin dall’inizio del percorso del New Labour è stata dovuta la scelta sulla moneta unica.
Ma al di là delle relazioni parlamentari, l’Europa e tutto quello che questa sigla ha finito con il significare - fusione di popoli, allargamento agli ex Paesi dell’Est, globalizzazione - è stato uno dei grandi deterrenti della sfida delle elezioni politiche, in cui i sentimenti del rigetto comunitario hanno giocato a favore dei conservatori e anche della forte autoreferenzialità del vecchio sindacalismo, e del vecchio Labour. Non a caso fra i primi che hanno preso atto dell’inevitabile fine di un coinvolgimento britannico con il referendum continentale è stato un amato vecchio leader della sinistra pre-Blair, Lord Kinnock che ha dichiarato pochi giorni fa «inevitabile» la messa a riposo di ogni voto sulla Costituzione europea.
Ma, appunto, stiamo parlando di conservatori e di vecchio Labour. In queste ore val la pena invece di ricordare quanto l’ideale europeista sia stato funzionale all’affermarsi di una nuova sinistra in Inghilterra. Tony Blair nella sua fortunata e veloce affermazione alla fine degli Anni Ottanta, si presentò sulla scena inglese come un europeista convinto, concependo, e facendo così concepire alla sua area politica, l’esistenza di un’unica sinistra europea, i cui confini erano un po’ più vasti di quelli di un’isola o di una nazione. Va ricordato il forte ruolo che giocò nei suoi primi anni al potere proprio attraverso la platea europea - cui si presentava più vicino e più efficace nelle somiglianze dell’America di Clinton.
Pensiamo al duello con Jospin, il leader Francese da cui lo divideva quasi tutto; ai convegni italiani; agli incontri dentro e fuori dal cerimoniale ufficiale con i leader tedeschi. Tutte battaglie a cui l’attuale premier ha legato ben più che una azione di politica estera: la famosa «Terza Via» si poteva leggere come una struttura di politica estera parallela ai governi, e anche come la sostituzione della classica internazionale con principi delle comunità moderne: mercato, integrazione, confini aperti. Del resto, la «Terza Via» nasce da un documento comune che firmano nel 1999 Blair e Schroeder, nel cui testo viene espressa l’ambizione di elevare l’esperienza dei governi di questi due leader a modello per una nuova stagione europea di crescita e giustizia sociale.
A fronte di queste ambizioni passate la rinuncia del Blair di oggi all’unità europea acquista un peso che va ben al di là dei calcoli elettorali. Uno dei suoi amici più fidati, come Peter Mandelson, uomo non a caso scelto per gestire il complesso dossier Bruxelles, può commentare in queste ore che la decisione di cancellare il referendum «dà a Tony il vantaggio di una nuova partenza». Ma rinunciando all’Europa Blair rischia di rinunciare a un sostanzioso pezzo della sua identità passata, nonchè a un esercizio di sovranità per il futuro. Non a caso già ieri un dubbio del genere circolava nei quotidiani inglesi.
Se Blair infatti crede che l’Inghilterra debba rimanere al centro dell’Europa, avrebbe dovuto comunque tenere il referendum e rispettarne il risultato - anche se negativo per lui - per farne la base di una politica condivisa per il futuro. Tenere fede alle proprie convinzioni non avrebbe pagato forse per l’oggi; ma l’alternativa non rischia forse di essere una lenta erosione della autorevolezza della stessa Inghilterra, oltre che del suo attuale leader?
Una risposta a questa domanda l’ha data ieri indirettamente Blair, quando, in procinto di volare a Washington per conquistare Bush alla causa dell’Africa in vista del prossimo G8, ha dichiarato a un giornalista: «L’Africa vale la pena di una battaglia; l’Europa, così com’è no». Con il risultato di far apparire anche l’Africa - una più che degna causa - il diversivo di una politica deragliata.
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