Da La Stampa del 06/06/2005
Referendum: sì a Schengen
In Svizzera qualcuno ama l’Europa
di Aldo Rizzo
Finalmente una buona notizia per l'Unione europea, dopo le cocenti delusioni dei referendum francese e olandese sul Trattato costituzionale. E' una notizia, però, che non viene dall'interno dell'Unione, dove perdura lo stato di choc, ma dal suo esterno, seppur molto vicino, da quella Svizzera che già più volte aveva espresso la sua storica misantropia politico-diplomatica, anche verso l'Europa, e che ieri, con una buona maggioranza, ha votato sì agli accordi Ue di Schengen e di Dublino sulla libera circolazione alle frontiere e sulla cooperazione giudiziaria sul diritto di asilo: accordi dei quali ora essa fa parte.
E dire che, non meno che in Francia e in Olanda, la campagna per il no era stata intensa e anche dura, guidata del resto dallo stesso partito di maggioranza relativa, quel partito popolare (populista) di Christoph Blocher, che è uno dei capi più in vista della destra europea più o meno apertamente xenofoba. Compresa, perché no, la Lega italiana. «Perdere la sicurezza? Perdere il lavoro?», urlava un volto di donna dai manifesti affissi un po' ovunque. E la conclusione, a grandi caratteri, era «Schengen Nein». I cittadini svizzeri, nel loro referendum (strumento abituale da quelle parti, come si sa, e non occasionale o improvvisato come, per dire, in Francia) non hanno dato corpo alle assurde paure evocate dalla propaganda negativa, hanno votato consapevolmente e razionalmente. (Hanno anche detto sì a una ragionevole registrazione civile, a fini fiscali e previdenziali, delle coppie gay).
La Svizzera, Paese originale, geloso di una sua autonomia globale fin dal Congresso di Vienna del 1814, che ha accettato di essere membro dell'Onu solo nel 2002, sta crescendo in maturità, in «modernità»? L'attende un altro test importante fra tre mesi, a settembre, quando voterà sull'estensione dei diritti di lavoro e di residenza ai cittadini della «nuova» Europa, cioè i dieci Paesi dell'Est e del Sud entrati nell'Ue nel 2004. L'Svp, il partito di Blocher, promette (minaccia) una campagna ancora più dura, ma si può sperare che perda un'altra volta.
Magari questo che viene dalla Svizzera non è un grande segnale, certo non guarisce le ferite di Parigi e dell'Aia, ma è significativo e istruttivo per più motivi. Dimostra che mentre dentro l'Ue si brancola tra le difficoltà (non senza qualche tendenza all'autoflagellazione), da fuori ci riconoscono ancora una grande forza di attrazione. E, in conseguenza, che dobbiamo rielaborare tra noi stessi le ragioni, politiche e istituzionali, e di rapporto tra governanti e governati, per far durare l'attrazione, o anche solo l'attenzione, dall'esterno. Che poi, in definitiva, dipenderà dalla nostra capacità di muoversi in avanti dopo le sconfitte.
E dire che, non meno che in Francia e in Olanda, la campagna per il no era stata intensa e anche dura, guidata del resto dallo stesso partito di maggioranza relativa, quel partito popolare (populista) di Christoph Blocher, che è uno dei capi più in vista della destra europea più o meno apertamente xenofoba. Compresa, perché no, la Lega italiana. «Perdere la sicurezza? Perdere il lavoro?», urlava un volto di donna dai manifesti affissi un po' ovunque. E la conclusione, a grandi caratteri, era «Schengen Nein». I cittadini svizzeri, nel loro referendum (strumento abituale da quelle parti, come si sa, e non occasionale o improvvisato come, per dire, in Francia) non hanno dato corpo alle assurde paure evocate dalla propaganda negativa, hanno votato consapevolmente e razionalmente. (Hanno anche detto sì a una ragionevole registrazione civile, a fini fiscali e previdenziali, delle coppie gay).
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