Da Corriere della Sera del 03/06/2005
Originale su http://www.corriere.it/Primo_Piano/Editoriali/2005/06_Giugno/03/divico...
L'orgoglio dei debiti
di Dario Di Vico
La parola chiave dei commenti politici di ieri è «orgoglio». L'ha pronunciata il ministro Roberto Maroni che dovendo chiosare la procedura per deficit eccessivo che la Commissione Ue sta per avviare nei confronti di Roma ha sostenuto che «l'Italia deve essere orgogliosa di sforare il 3% del rapporto deficit-Pil». Il ministro ha peraltro detto anche che la spesa aggiuntiva va a coprire riduzioni fiscali e investimenti e che in virtù della bontà di queste scelte «non dobbiamo avere paura» di Bruxelles. È evidente nelle parole di Maroni la consapevolezza di potersi giovare della fase di euro-confusione che si è aperta con il doppio no francese e olandese al referendum. Come se la valenza di quel voto potesse essere allargata fino a comprendere e ad azzerare l'intera regolamentazione europea vigente. Un rompete le righe senza esclusione di norma.
Se Maroni è stato esplicito, quest'ambiguità di interpretazione sembra essere presente anche nelle valutazioni, più prudenti, fatte ieri dal presidente del Consiglio. È sacrosanto chiedere un ripensamento sulle strategie di integrazione europea e il leader di uno dei grandi Paesi fondatori ha il diritto-dovere di esigerlo, ma si ha l'impressione che quando la critica di parte italiana si appunta a mo' di refrain su «la troppa burocrazia, le troppe leggi e i troppi regolamenti» è legittimo pensare che si vogliano mettere nel mirino non i regolamenti di caccia e pesca ma i parametri di sostenibilità finanziaria definiti a Maastricht. Il risultato dei referendum ha aperto sicuramente una crisi istituzionale dell'Europa, ha segnalato una grave cesura nel rapporto tra governanti ed elettori e costituisce un pressante invito a ridefinire politiche del consenso meno presuntuose e sciatte di quelle messe in atto in occasione del changeover.
Ma tutte le novità che si possono introdurre, tutti i rimedi che si potranno trovare alle euro-imperfezioni non avranno mai il potere di far dissolvere il debito pubblico made in Italy. Che, vale la pena di ricordarlo, è per buona metà in mano a investitori esteri. Ridicolizzare l'Europa, dunque, non ci conviene anche perché le stime correnti ci dicono che il nostro deficit viaggia nell'ordine del 5% del Pil. In soldoni all'incirca 67 miliardi di euro. Ha ragione Silvio Berlusconi nell'indicare nel rilancio dell'economia, nel superamento della stagnazione l'obiettivo da perseguire per rimettere in piedi l'Europa e forse anche per ricostruire un consenso più stabile attorno alle scelte di integrazione.
Si può aggiungere, però, che finora le politiche messe in campo dal governo di Roma si sono dimostrate inefficaci. Non è l'Italia ad andare più forte di un'Europa che invece tende a frenarla. È vero (purtroppo) l'esatto contrario, siamo il fanalino di coda, i più lenti di Eurolandia. E se oggi, come la dichiarazione di Maroni può lasciar pensare, ci facciamo prendere dalla tentazione di sognare «lo sviluppo in un Paese solo », il meno che può capitarci è di incrementare i debiti e di consegnare ai nostri poveri figli un’ipoteca sul loro futuro.
Se Maroni è stato esplicito, quest'ambiguità di interpretazione sembra essere presente anche nelle valutazioni, più prudenti, fatte ieri dal presidente del Consiglio. È sacrosanto chiedere un ripensamento sulle strategie di integrazione europea e il leader di uno dei grandi Paesi fondatori ha il diritto-dovere di esigerlo, ma si ha l'impressione che quando la critica di parte italiana si appunta a mo' di refrain su «la troppa burocrazia, le troppe leggi e i troppi regolamenti» è legittimo pensare che si vogliano mettere nel mirino non i regolamenti di caccia e pesca ma i parametri di sostenibilità finanziaria definiti a Maastricht. Il risultato dei referendum ha aperto sicuramente una crisi istituzionale dell'Europa, ha segnalato una grave cesura nel rapporto tra governanti ed elettori e costituisce un pressante invito a ridefinire politiche del consenso meno presuntuose e sciatte di quelle messe in atto in occasione del changeover.
Ma tutte le novità che si possono introdurre, tutti i rimedi che si potranno trovare alle euro-imperfezioni non avranno mai il potere di far dissolvere il debito pubblico made in Italy. Che, vale la pena di ricordarlo, è per buona metà in mano a investitori esteri. Ridicolizzare l'Europa, dunque, non ci conviene anche perché le stime correnti ci dicono che il nostro deficit viaggia nell'ordine del 5% del Pil. In soldoni all'incirca 67 miliardi di euro. Ha ragione Silvio Berlusconi nell'indicare nel rilancio dell'economia, nel superamento della stagnazione l'obiettivo da perseguire per rimettere in piedi l'Europa e forse anche per ricostruire un consenso più stabile attorno alle scelte di integrazione.
Si può aggiungere, però, che finora le politiche messe in campo dal governo di Roma si sono dimostrate inefficaci. Non è l'Italia ad andare più forte di un'Europa che invece tende a frenarla. È vero (purtroppo) l'esatto contrario, siamo il fanalino di coda, i più lenti di Eurolandia. E se oggi, come la dichiarazione di Maroni può lasciar pensare, ci facciamo prendere dalla tentazione di sognare «lo sviluppo in un Paese solo », il meno che può capitarci è di incrementare i debiti e di consegnare ai nostri poveri figli un’ipoteca sul loro futuro.
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