Da La Repubblica del 31/01/2005

Nel nord dell'Iraq controllato dalle milizie curde le elezioni si sono svolte in tutta tranquillità

"Il più bel giorno del Kurdistan" Al voto con gioia e sicurezza

di Marco Ansaldo

SALAHADDIN (Iraq del Nord) - Sorrisi e un'allegra confusione. Così il Kurdistan ha votato. Un voto compatto, svolto in condizioni quasi ottimali, con la percentuale più alta di tutto il paese: oltre 85 per cento. Il modello curdo funziona anche alle urne, rivelandosi un invidiabile esempio di efficienza e sicurezza. La stessa che fa dire al ministro degli Esteri iracheno, il curdo Hoshyar Zebari che «nelle elezioni i terroristi sono stati sconfitti».

Al seggio di Salahaddin, centro innevato del Kurdistan iracheno a 1200 metri sopra il livello del mare, molta allegria spontanea e tazze di tè fumante in giro per i tavoli elettorali. Votano i peshmerga, i guerriglieri curdi, in fila ordinata. Uno dopo l'altro, disciplinatamente, infilano la scheda nell'urna dopo aver bagnato l'indice di inchiostro. «Hanno fatto bene a non smantellarci - dice un soldato con la tipica fusciacca annodata attorno alla vita - siamo una garanzia di sicurezza. Avete visto che cosa è successo nel resto del paese dopo che gli americani hanno sciolto l'esercito iracheno?».

Il flusso di elettori al seggio incastonato nella neve è continuo. Ecco un'anziana donna in carrozzella. Si chiama Huli, ha 81 anni. La portano di peso dietro la cabina di legno grezzo. All'uscita è radiosa: «Sono settant'anni che aspetto questo momento». Un uomo si trascina dietro invece i componenti del suo nucleo familiare: sei donne, moglie, madre, sorelle e zia.

Nessuna di loro ha la minima idea di come procedere. Per dieci minuti buoni, incuranti della fila pressante alle spalle, occupano le cabine. Il capofamiglia fa il giro completo delle parenti, le schede ben in vista. Vota lui stesso per tutte quante. «Ecco, metti un segno qua, la croce lì. Brava». Alla fine escono felici, indossando il vestito buono delle grandi occasioni.

«Sappiamo perfettamente - dice l'americano Fred Abrahams, di Human Rights Watch, una delle poche organizzazioni presenti per monitorare il voto - che secondo le norme in uso altrove non sempre si potrebbe parlare di regolarità. Ma l'ingenuità e l'impaccio di questa gente è comprensibile: il voto qui è andato piuttosto bene».

Tre le schede consegnate agli elettori. Una per la nomina delle Assemblee cittadine, una per il Parlamento regionale, l'ultima per le elezioni nazionali. Non esattamente una passeggiata, come prima occasione di voto. Ma i curdi aderiscono con entusiasmo a quella che ovunque è riconosciuta come «una giornata storica». Ad aggiungersi alla trafila per votare nei seggi ufficiali, davanti a ogni scuola è inoltre montata una tenda per aderire al referendum sull'indipendenza del Kurdistan. Una scelta che le autorità fingono quasi di ignorare, ma a cui in realtà guardano con interesse. E il milione e 700 mila firme raccolte in consultazioni precedenti rischia di crescere ancora per i quasi 5 milioni di abitanti della regione. I cui leader non possono esplicitare il loro desiderio di indipendenza per non irritare vicini potenti come Turchia, Siria e Iran, dove vivono gli altri 20 milioni di curdi.

Eppure il peso di una petizione popolare finirà prima o poi per diventare una questione ineludibile, nel già instabile quadro mediorientale. Partito democratico del Kurdistan e Unione patriottica del Kurdistan, le due formazioni maggiori, hanno così deciso di unirsi. Un tempo nemici, i due leader Barzani e Talabani si sono prima alleati nella guerra contro Saddam e hanno adesso continuato la loro coalizione componendo una lista unica destinata, nelle parole del ministro Zebari, «a massimizzare le forze per ottenere più seggi possibili nell'Assemblea nazionale irachena».

Le rivalità tribali fra curdi sembrano ormai una tradizione del passato. E a Suleymania, Jalal Talabani può lanciarsi in un ringraziamento sentito «a Bush, Blair e a tutti i leader della coalizione internazionale che ci hanno dato la possibilità di andare alle elezioni per un Iraq unito».

Ovunque, a Erbil, Dohuk, Zakho, Dokan, Halabja, il voto è stato «buono e libero», secondo la definizione degli anglosassoni. Uniche macchie, destinate a non sciogliersi rapidamente, quelle legate alle due città del petrolio, Mosul e Kirkuk. Nella prima, nonostante il terrore imposto dagli insorti, la gente ha sfidato le minacce per andare a votare. Almeno cinque esplosioni hanno sconvolto il centro, a maggioranza sunnita, mentre è andato a vuoto il tentativo di uccidere il governatore.

Complessa e tesa anche la situazione a Kirkuk, divisa fra etnie diverse, ma dove arabi e turcomanni lamentano l'iscrizione alle urne di 72 mila curdi provenienti dall'estero o altre località. Un disegno, secondo le critiche, volto ad alterare la composizione di una città che dà al paese un'altissima percentuale di oro nero. Ma i curdi sostengono che si tratta di riequilibrare una situazione che, dall'ascesa al potere di Saddam, li ha visti soccombere di fronte a un'accresciuta presenza di cittadini arabi. I risultati del voto, come in tutto il paese, non saranno possibili prima di qualche giorno. Non sembra crucciarsene la gente che fino a sera affolla il seggio di Salahaddin, dove una ragazza di diciotto anni dice trasognata: «Per noi è stato già importante venire qui. Oggi è il giorno più bello della mia vita, è il giorno più bello del Kurdistan».

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