Da Corriere della Sera del 31/01/2005

«D’ora in poi il governo nascerà dalle urne»

Di seggio in seggio tra le code a Bagdad: «Al diavolo Al Qaeda, non è riuscita a intimorirci»

di Lorenzo Cremonesi

Parliamo liberamente con la gente, per quasi 8 ore ci riappropriamo con sorpresa di questa città che era diventata un enorme labirinto di incubi. «Un voto contro il ricatto dei terroristi, al diavolo Al Zarkawi e i criminali della sua risma. Ora basta con i loro attentati. Volevano intimorirci? Non ci sono riusciti. Tanto ai morti quotidiani ormai siamo abituati, uno in più o uno in meno fa poca differenza», dicono Abdel Kharim Mahmud e Alì Kadhem, due sciiti sulla trentina che hanno appena votato. Poco più avanti, presso il seggio numero 67002, nel liceo maschile Al Farat, la prima sorpresa: un lunga coda di gente - uomini di ogni età, molti anziani, tante donne - attende pazientemente il proprio turno per votare. Nessuno protesta per le draconiane misure di sicurezza. Quando per la centrale Sadoon Street transitano sei cingolati carichi di soldati in assetto di guerra della nuova Guardia Nazionale la gente applaude. Loro rispondono agitando in aria i kalashnikov.

Nessun problema per il blocco totale del traffico o le due giornate di chiusura totale imposte dal governo transitorio di Iyad Allawi. Ragazzini e uomini di mezza età in maglietta giocano a calcio dove in genere il traffico rende l’aria irrespirabile. Non c’è incrocio senza poliziotti. I cecchini americani sono appostati sui palazzi più alti. Gli elicotteri ronzano di continuo a bassa quota. Fili spinati e transenne dovunque. Ma gli iracheni sembrano quasi rassicurati da tante misure di polizia.

Tanto che vengono in mente le critiche di un anno e mezzo fa di Kanan Makiya, uno dei più celebri intellettuali iracheni, fuggito dalla persecuzione di Saddam Hussein negli anni Ottanta e finito a scrivere libri e articoli tra Londra e New York contro la «repubblica della paura». «Gli iracheni hanno paura della paura. Sono stanchi del terrore e le angherie imposti dalla dittatura. Se, subito dopo la loro entrata a Bagdad, gli americani avessero imposto un rigido coprifuoco di 20 giorni sarebbero stati molto più popolari che non con il loro atteggiamento passivo e addirittura permissivo di fronte all’ondata di violenze, rapimenti e saccheggi», diceva Makiya.

La conferma viene parlando con la gente al seggio. «Ho votato per la lista numero 285, quella di Allawi. Mi sembra l’unico in grado di imporre sicurezza sul Paese. E’ un passaggio necessario. Senza non si potrà mai costruire alcuna seria democrazia», sostiene Majid Abdul Hamid.

«Tra un anno torneremo alle urne. Allora potremo fare distinguo più sottili tra i diversi partiti politici, conoscere i loro programmi, i loro candidati. Ma oggi vorremmo creare un precedente importante: d’ora in poi il governo in Iraq si deciderà con la scheda elettorale e non con i fucili e l’ingiustizia del più forte», aggiunge Hachem Ligreri. Parole che ricordano quelle pronunciate il 9 ottobre scorso in Afghanistan. Con una differenza però. Qui il terrorismo è stato presente tutti i giorni. Ligreri è un anziano sciita, accompagnato dai due figli con le rispettive mogli. «Sono nato nel 1920. Per decenni ho sognato questo momento per i miei figli e il futuro delle prossime generazioni irachene. Non me lo lascerò certo rovinare da qualche disgraziato criminale».

Difficile capire quanto la decina di seggi visitati nel raggio di 5 o 6 chilometri dall’hotel Palestine siano indicativi dell’andamento del voto in città. A Sadr City e Khadimia, i grandi quartieri sciiti, si stima una partecipazione entusiasta, vicina al 90 per cento. Molto meno invece in quelli sunniti di Adhamia e Haifa Street. «Qui il tasso di voto si ferma a meno del 40 per cento», sostiene un ex esponente del regime di Saddam, che ha però deciso di votare nella locale scuola elementare. Un miracolo in ogni caso. A Bagdad due sere fa erano in molti a prevedere tassi di astensione vicini all’80 per cento. La realtà sul campo mostra che non è così. Al seggio di Al Farat sono iscritte circa 3.000 persone: ieri a mezzogiorno aveva votato il 50 per cento. Stessa percentuale al seggio numero 67004 nel liceo El Nedamieh. Una zona abitata da cristiani e sunniti.

«Abbiamo votato per la lista monarchica. Siamo sunniti laici, questo è l’unico partito che garantisce un governo non confessionale», affermano Akil Ibrahim e Hana Khalil. Altri due sunniti che gestiscono un negozio di alimentari, Abdel Karim al Ubeidi e Haidar al Rubai, hanno invece scelto Allawi: «L’Iraq è paragonabile alla Germania dopo la caduta di Hitler nel 1945. Vogliamo un governo forte, in grado di cooperare con gli americani, i nostri liberatori. Allawi ci sembra l’uomo giusto».

Lo scrutinio procede senza intoppi al seggio 67005, nelle aule dell’Istituto Commerciale Port Said. Alle 13.30 qui hanno votato in 1.500 su 2.500 registrati. Arrivando verso le 16.30 al seggio 66007 nel liceo di Al Sharkie possiamo già azzardare un bilancio. «Un grande successo. Siamo sbalorditi. Sinceramente, non pensavo che sarebbero arrivati più di 600 elettori sui 3.000 iscritti. E invece chiuderemo a 2.000», dice il presidente, Alì Wadi, sciita. Che avverrà adesso? «Il nuovo governo, forte della sua legittimità, potrà imporre agli americani un calendario di ritiro», esclama Sa’ad al Zubeidi, un cinquantenne sunnita la cui abitazione si affaccia sul cortile della scuola. Nove mesi fa suo fratello Khaled venne ucciso per errore da una pattuglia americana. Ora prova verso di loro un sentimento ambiguo di odio e sopportazione: «La loro è stata un’occupazione brutale. Poteva essere molto meglio. Sparano per nulla, hanno ferito e ucciso migliaia di innocenti. Ma è anche vero che, se non avessero defenestrato Saddam, noi oggi non avremmo mai potuto votare».

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