Da La Repubblica del 18/05/2005

Uzbekistan rapporto dal paese della strage

di Giampaolo Visetti

ANDIJAN (Uzbekistan) - «Non abbandonateci. Karymov verrà a prenderci una ad una, farà uccidere i nostri figli e aspetterà i nostri mariti. Il mondo non può lasciarci nelle mani di un assassino. Perché le organizzazioni internazionali e i governi non sono intervenuti, come a Bishkek, o a Kiev? Perché stanno tutti fermi?». Le madri di Andijan, al riparo di un muro di terra, affidano a "Repubblica" il loro grido d'aiuto. Da venerdì, fuori dal cancello dell'ospedale e dall'obitorio, aspettano di sapere se potranno curare un ferito, se piangono un morto, o uno scomparso. Temono la vendetta ignorata, appena spenti i riflettori. «Chiediamo un tribunale internazionale, per valutare questa carneficina e quindici anni di delitti». La rivolta contro il regime post-sovietico dell'Uzbekistan è stata annegata nel sangue. Un vecchio, al volante di una minuscola «Tico», ha perso tre figli, erano accorsi qui, in piazza «Alisher Navoy», quando i carri armati hanno travolto la folla. Un vicino ha visto i camion rovesciare i loro corpi nella discarica. Il centro di Andijan ora è deserto. Dalle rovine del cinema «Chulpon», di due scuole e del palazzo del governo, salgono ancora un fumo nero e quel certo odore dolce di morte. Nelle aiuole, zappati via i fiori, hanno sepolto i primi caduti.

Camion militari «Kamaz», carri armati e autoblindo sbarrano l'accesso dalla periferia. La strada dei profughi, un'ora e mezzo di sterrato sino al confine di Kara-Suu, è sconvolta da crateri tra i campi di fragole e tabacco.

In mezzo, vetusti pozzi di petrolio ancora in funzione accanto alle pompe di benzina. Quattro i posti di blocco, presidiati da soldati che ti puntano il mitra da lontano. Grazie alle conoscenze di Muzafar, un autista che si ferma spesso a tirare droga scura da un sacchettino di nailon, passiamo anche il setaccio di Borlik. Attraverso viottoli agricoli che solcano la valle di Fergana, aggiriamo le ultime postazioni, i camion di sbarramento e piombiamo nella città chiusa passando da un cimitero di automobili. Cinque donne, accovacciate tra le lamiere roventi singhiozzano. Lungo il confine con il Kirghizistan hanno trovato altri tredici cadaveri. Madri e bambini cercavano di scappare dall'inferno. I militari di Karymov li avrebbero fucilati e abbandonati in una risaia.

Circolare per il centro è vietato, centinaia di soldati spuntano con i kalashnikov da dietro i sacchi di sabbia.

Sul corso Bogi Babur, signore medievale della nazione, tre cannoni vengono puntati verso un gruppo di palazzi. Una ruspa porta via un'auto crivellata di proiettili. Un tassista cerca invano di infilare nel micro-bagagliaio un cadavere avvolto in un lenzuolo. Il sole illumina i lunghi viali di pioppi, ma Andijan sembra muoversi nelle tenebre.

Mercati deserti, usci tappati, per le vie solo bambini e militari. I primi si stendono a terra e bevono da luridi tubi di plastica. Da qualche albero, davanti a baracche, pendono cosce di vacca e di montone. Nessuno compra. Sopra un carro tirato da un asino, sfila un ferito mutilato alle ginocchia. «State lungo il muro», grida qualcuno da una finestra. Al fresco del suo cortile, si presenta. E' il leader del partito Ozod Dehkonlar (Liberi contadini), il solo rimasto all'opposizione. Assieme agli attivisti, ha girato le case di notte per contare i morti. «Fino ad oggi - dice - ce ne sono 758 di certi. Ad Andijan 542, nel villaggio di Pakhta-Abad 203, più i 13 massacrati vicino a Kara-Suu. Almeno 400 i dispersi: potrebbero anche essere fuggiti. O nei campi d'accoglienza».

La verità, dalla città del massacro, non si nasconde però nelle cifre. Con le fosse comuni chiuse e il terrore a tappare la bocca il numero come sempre non si saprà mai. Sono i fatti, la realtà che ascoltiamo raccontare da decine di testimoni, a cambiare la storia.

Seduti per terra, davanti al carcere rosa da cui sono partiti gli scontri, i capifamiglia finiscono di riordinare l'accaduto. Attorno a un tè, è subito chiaro che il fondamentalismo islamico, con questa rivolta, non c'entra. Quantomeno non prevale.

E' andata così. In febbraio il nuovo governo ha fatto arrestare 23 giovani commercianti. Rivali di clan, generazioni di odio familiare. Accusa: essere affiliati al movimento panislamico Akromia, costola del gruppo paraterroristico Hizb ut Tarhir, fuorilegge e collegato ad Al Qaeda.

Akromia in realtà è un partito laico di opposizione politica a Karymov, sostenitore di riforme economiche liberiste: di qui l'accusa dell'ex segretario del Pcus, indimostrabile ma pure innegabile, di estremismo religioso. Venerdì scorso il tribunale di Andijan doveva condannare i giovani a 7 anni di prigione. Da mercoledì, genitori, mogli, amici, sostavano fuori dal carcere per chiedere giustizia. Giovedì sera la polizia ha fatto rimuovere le auto dei manifestanti. Alcune sono state distrutte, due bruciate.

«È stata l'ultima goccia - dice Donor - la prepotenza che ci ha dato coraggio». I due o trecento presenti, nella notte hanno assaltato il penitenziario per liberare i loro figli. «Nessuno ha opposto resistenza - racconta Akhmad - le guardie ci hanno lasciato entrare. Abbiamo dovuto svegliare i reclusi: qualcuno non aveva nemmeno il coraggio di uscire». I ribelli, armati e ingrossati da duemila detenuti in fuga, volevano chiedere la mediazione di Karymov e del presidente russo Putin per vedere riconosciuta l'innocenza dei 23 sotto processo. «La risposta - sibila Shaukat sono stati i blindati contro la gente uscita a vedere cosa stava succedendo». In questo, ammettono, l'errore fatale. Le famiglie dei detenuti politici erano convinte che l'esercito si sarebbe schierato con il popolo, come in Kirghizistan.

«Invece qui - riconosce Saikhadzhon Zeinabiddinov, leader dei gruppi umanitari - la paura resta troppo forte. Se ti opponi, distruggono la tua famiglia. E i soldati hanno obbedito».

Un'ingenuità: l'assalto al carcere è stato presentato come rivolta di massa e questa come una rivoluzione di ispirazione islamica. Conclusione: guerra la terrorismo e sostegno delle grandi potenze. Invece era una ribellione locale, all'ingiustizia e alla fame.

Questo è quanto afferma, compatta, la popolazione prigioniera di Andijan.

Rideva e piangeva, domenica, ascoltando Karymov e il ministro degli Esteri russo, Lavrov, accusare l'internazionale del terrore, o i fondamentalisti islamici decisi a creare un califfato nell'Asia centrale, o i taliban di Bin Laden in missione dall'Afghanistan. «Gli esaltati ci sono - dice la paladina dei diritti umani Galina Bukharbaeva - ma questa rivolta nasce solo dalla disperazione, dal senso di ingiustizia, dalla povertà con cui ci misuriamo. Karymov è astuto: ha parlato di Islam sapendo che Usa, Russia ed Europa avrebbero lasciata impunita la sua carneficina esemplare».

Così, da giovedì notte, Andijan è divenuto il gulag dei condannati. Vecchi, donne, bambini, malati: oltre 200 mila persone. Nessuno può uscire, o rientrare. Ostaggi di Stato, fino a quando tutti gli insorti sopravvissuti non si saranno consegnati. Cacciati e minacciati i giornalisti. Le Tv trasmettono canti e danze folcloristiche. Coprifuoco, superfluo, dalle 18. Una città-carcere ad esempio di chiunque, in Asia centrale, osi reclamare libertà e una vita dignitosa. Prigionieri dell'Oriente grazie all'etichetta occidentale dell'Islam.

Per chi scappa, il dramma dell'esodo si sommerge invece sulle sponde del fiume Sho-Rhan-Suu, confine naturale tra Uzbekistan e Kirghizistan. Cinquemila profughi, fino a lunedì, hanno preso d'assalto il bazaar Tor-Kachoo di Kara-Suu. Era l'unico mercato dove ancora ci fosse cibo, e a buon prezzo. Gli scampati ad Andjian, diretti a Osh e nella regione di Jalal-Abad, hanno ricostruito i due ponti distrutti contro gli spacciatori di oppio. A decine, qui tra i forni che producono ruote di pane, sono caduti sotto i colpi della milizia uzbeka. Domenica hanno bruciato la caserma della polizia, sede del fisco, stazione doganale.

Dall'altra parte del ponte, stretto che ci passa non più di una mucca per volta, ha aperto il fuoco l'esercito kirghiso. Ma pure i commercianti si sono opposti, per paura di razzie. Una guerra tra poveri, tutti contro tutti.

Novecento sono riusciti a passare, gli altri sono sbarcati tra Teshik-Thash, Kara-Darià e Suuzak. Duecento feriti sono negli ospedali di Jalal-Abad e Osh. Nelle tendopoli e nei campi profughi di Suuzak, la tragedia di chi ha lasciato tutto per non trovare nulla. Mancano cibo, acqua, vestiti, farmaci: solo oggi l'arrivo, annunciato, dei primi aiuti umanitari. File di donne, nei campi immensi, zappano per ore sotto il sole. Alla fine, riso e cipolle per sfamare i bambini. «Non lasciateci qui - ci dicono - a morire perché siamo musulmane».

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