Da La Repubblica del 11/05/2005

Guerra al terrore, chi vince e chi perde

di Gilles Kepel

L´arresto in Pakistan di Abu Faraj al Libbi, presentato come «numero tre» di Al Qaeda, giunge a proposito per celebrare un successo della guerra al terrore, in un contesto in cui in Iraq ogni giorno che passa porta il suo tributo di carneficine. E fa seguito a una polemica sorta tra il governo di Washington e gli oppositori democratici, i quali rilevano che nel 2004 – anno della rielezione di George W. Bush, proprio in ragione di questa guerra il numero delle vittime del terrorismo islamista è notevolmente aumentato rispetto agli anni precedenti. D´altra parte, la capacità di nuocere della rete di Al Qaeda sembra segnare il passo, dopo gli attentati dell´11 marzo 2004 a Madrid. Non c´è più stata nessuna azione della stessa portata rivendicata a suo nome.

E´ in Iraq che i massacri terroristici mietono il maggior numero di nuove vittime. Ora, l´offensiva contro Saddam Hussein, nella primavera del 2003, doveva rilanciare il tentativo relativamente infruttuoso di colpire Bin Laden e i suoi, sotto l´etichetta cumulativa di una «guerra al terrore». Grazie all´armamentario del Pentagono, l´eliminazione del tiranno di Bagdad si profilava come una vittoria semplice e visibile contro un avversario con tanto di carri armati, caserme e palazzi, più facili da assoggettare della duttile rete cyberterroristica di Al Qaeda, i cui capi si esibivano sul piccolo schermo sfidando l´iperpotenza americana. Oggi, a due anni dalla caduta di Bagdad e a un anno dal massacro di Madrid, la situazione si è rovesciata: l´operazione chirurgica irachena minaccia di incancrenirsi, mentre l´atteso sradicamento di Al Qaeda fornisce a Washington un pretesto per cantar vittoria.

Abu Faraj al Libbi non era un pesce tanto grosso da meritare di figurare nell´elenco degli individui più ricercati dal Pentagono – anche se ai fini mediatici George Bush ha i suoi buoni motivi per presentarlo come uno dei principali «generali» di Al Qaeda; mentre il Pakistan, che è in attesa di una fornitura di F16 americani, valorizza il proprio contributo alla sicurezza dell´America e del mondo. Il valore dell´arresto di Abu Faraj al Libbi è legato alla sua supposta prossimità a Bin Laden e a Zawahiri, la cui cattura tanto agognata rappresenterebbe un successo soprattutto simbolico, se si confermasse la minor capacità operativa della rete. Simbolico ma essenziale, nella misura in cui il terrorismo islamista – o la strategia delle operazioni suicide dei «martiri», mediatizzate secondo la teoria di Zawahiri – si fonda su un legame indissolubile tra il reale (l´attentato), la sua proiezione simbolica (la ripercussione televisiva) e l´immaginario galvanizzato delle «masse musulmane», che dovrebbero sollevarsi, in virtù dell´esempio, contro i governi «empi», l´Occidente, gli ebrei e altre incarnazioni del Male, per instaurare sulla terra lo Stato islamico, identificato con il regno del Bene. L´11 settembre, il legame tra questi tre elementi è arrivato al parossismo grazie alle dimensioni dell´attentato, alla sua copertura mediatica e alle reazioni di «Schadenfreude» (gioia dell´altrui danno) suscitate in diversi ambienti. Ma nonostante tre anni di attentati mimetici reiterati – peraltro di portata sempre più limitata – questo legame si è ormai allentato. Il primo a cedere è stato l´immaginario: le masse non si sono mobilitate, e il valore simbolico degli attentati ha perso la sua efficacia, demotivando molti dei potenziali autori. A ciò vanno aggiunti i successi riportati dai servizi di intelligence: l´arresto di Khakled Sheikh Mohammed e di altri responsabili di Al Qaeda, lo smantellamento delle filiere di finanziamento ecc. Dopo gli attentati di Madrid, a parte i vituperi lanciati dalla TV poco prima dell´elezione di George Bush (alla quale, a modo loro, hanno contribuito) Bin Laden e Zawahiri non hanno più «segnato». Gli Stati Uniti tengono molto a gloriarsi di questo successo, anche se il merito non spetta solo a loro, anche perché il fronte del terrorismo iracheno manifesta al contrario una preoccupante reattività.

La violenza in Iraq, di cui i civili iracheni sono di gran lunga le prime vittime (benché in Occidente l´opinione pubblica se ne preoccupi soprattutto quando colpisce i cittadini stranieri) funziona in maniera diversa quella di Bin Laden. Quali che siano le responsabilità di Abu Faraj al Mouss´ab al Zarqawi in varie stragi e catture di ostaggi, e al di là di quanto reale sia la sua adesione ad Al Qaeda, il terrore in Iraq non ha una valenza prevalentemente simbolica, costruita per un´accurata messinscena televisiva. E neppure è opera di una rete evanescente. E´ innanzitutto e soprattutto terrore reale, quotidiano e massiccio, divenuto oramai un vero mercato politico in cui entrano tutte le forze che non si riconoscono nel processo elettorale e nel nuovo governo: oltre ai fautori del jihadismo-salafismo, gli ex baathisti organizzati, e accanto ai sunniti scontenti varie fazioni curde o sciite che nella violenza hanno trovato il mezzo per eccellenza per farsi sentire o conquistare maggior potere (come dimostra il reclutamento di ex baathisti, fino a ieri osteggiati dalle forze di sicurezza sotto l´egida americana).

E´ questa oggi la crudele ironia della guerra contro il terrore: il rovesciamento del dittatore di Bagdad avrebbe dovuto portare alla democratizzazione del Medio Oriente, che a sua volta sarebbe stata la condizione politica per la scomparsa del terrorismo. Questo calcolo resta difendibile a lungo termine: ma per il momento, è l´Iraq a costituire la fonte di un terrorismo che sta superando quello di cui Bin Laden si era fatto campione.
Annotazioni − Traduzione di Elisabetta Horvat.

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