Da La Repubblica del 10/05/2005

Le riforme necessarie e i sogni nel cassetto

di Tito Boeri

I conti pubblici vanno male. Saranno in condizioni ancora peggiori dopo le elezioni del 2006. Da qui ad allora la procedura per deficit eccessivo sarà stata avviata nei confronti del nostro paese, esponendoci ancor di più al rischio di un aumento degli oneri sul debito pubblico. Questo è un rischio più forte ora che la Commissione abbaia, ma non morde, dato che il Patto di Stabilità e Crescita è stato depotenziato. Gli elettori, dopo cinque anni vissuti all'insegna di annunci mirabolanti poi disattesi, non credono più ai miracoli. Intuiscono che, per attuare i molti progetti di spesa formulati in campagna elettorale, il Governo che verrà dovrà aumentare le tasse. Cosa di cui, ce lo dicono i sondaggi, proprio non vogliono sentir parlare.

Meglio allora mettere molti sogni nel cassetto. Tutti, tranne uno, troppo importante per essere messo da parte: la riforma degli ammortizzatori sociali. I provvedimenti appena inseriti dal Governo nel pacchetto competitività sono uno specchietto per allodole. Allungano la durata dei sussidi di disoccupazione ordinaria di un solo mese per chi non ha carriere discontinue, dunque escludono proprio i lavoratori che ne avrebbero maggiore bisogno. Nel mese di proroga del sussidio non è previsto il pagamento dei contributi previdenziali, il che tra l'altro complica tantissimo la gestione delle future pensioni. Come sempre, ci si disinteressa dei costi amministrativi di queste non-riforme. Infine, l'intervento ha durata biennale. Se si vorrà estenderlo nel tempo, bisognerà trovare adeguata copertura.

La riforma degli ammortizzatori è strategica per fare uscire il nostro paese dal declino. Risponde alla domanda di protezione che si legge dietro al diffuso senso di impoverimento degli italiani, al disagio di chi non ha strumenti per assicurarsi contro la crescente variabilità dei propri redditi. Permette di ridurre i costi sociali del cambiamento strutturale necessario per rilanciare la nostra economia. Può stimolare maggiore partecipazione al mercato del lavoro ed emersione di sommerso: un lavoro regolare è l'unico modo per poter domani beneficiare del sussidio nel caso in cui le cose andassero male. Infine, risponde a ragioni di equità: solo in Italia esistono disoccupati di serie A (i lavoratori delle grandi imprese industriali che hanno accesso al circuito Cassa Integrazione - liste di mobilità - pensionamento anticipato) e disoccupati di serie B (i lavoratori delle piccole imprese e dei servizi che accedono ai miseri "sussidi ordinari di disoccupazione").

Ma una riforma seria costa. Portare la durata massima dei sussidi ordinari a due anni, garantendo inizialmente un reddito pari al 65% del salario precedente, costa circa 3 miliardi e mezzo di euro. Un reddito minimo garantito per chi non trovasse lavoro entro questi due anni o finisse al di sotto della soglia di povertà (anche lavorando) costa altri 9 miliardi. L'insieme significa circa un punto di Pil.

Come reperire queste risorse? Diverse le strade da seguire. La prima è quella della riforma degli incentivi all'occupazione, in cui ci sono molti sprechi da eliminare. L'Italia è l'unico paese Ocse che spende di più in politiche attive (cui destiniamo più di mezzo punto di Pil) che in sussidi di disoccupazione. Non è dato sapere nulla sull'efficacia di molti corsi di formazione (queste misure da noi non vengono valutate), ma è legittimo nutrire molti dubbi sull'utilità di corsi di formazione impartiti in aree depresse, in cui non ci sono poi lavori in cui utilizzare le competenze eventualmente acquisite. Altre misure, come i bonus per l'occupazione al Sud (altro 0,2% di Pil), sono stati resi inefficaci con i cosiddetti "rubinetti", limiti di spesa prestabiliti. Dato che i richiedenti non sapevano se avrebbero poi potuto contare sul sussidio, si sono finanziate solo le imprese che avrebbero comunque assunto lavoratori. Stesso destino è toccato a molti altri strumenti di incentivazione, dalla legge 488 ai patti territoriali. Incentivi che non danno certezze a chi ne fa domanda, sono peggio di nessun incentivo, perché spiazzano altre spese più meritorie e alimentano sfiducia nello Stato. Un'altra parte della riforma verrebbe finanziata introducendo meccanismi, del tipo di quelle già vigenti per la Cassa integrazione, per cui le imprese che licenziano lavoratori (anche non rinnovando contratti a tempo determinato) devono contribuire più delle altre al finanziamento del sussidio. La parte residua della riforma potrebbe essere reperita destinando alla riforma ogni risparmio conseguito nell'eliminazione di sprechi: si tratta di qualche miliardo di euro a fronte di livelli di spesa corrente superiori ai 500 miliardi di euro. La sensazione è che chi oggi si oppone alla riforma non lo fa perché non ci sono i soldi, ma perché ha altre priorità: preferisce dare più risorse alle regioni decisive nella prossima tornata elettorale o a qualche grande impresa in crisi, piuttosto che finanziare misure universali di contrasto alla povertà, basate su regole uguali per tutti.

C'è un'obiezione più seria all'introduzione di strumenti come un reddito minimo garantito: la forte evasione fiscale nelle regioni in cui oggi la povertà è concentrata può permettere a molte famiglie di fruire del sussidio anche quando non sono povere. È un problema che non va sottovalutato. Ma è possibile accertare il grado di bisogno degli individui anche a prescindere dalle dichiarazioni dei redditi. Ci vogliono, certo, controlli serrati e bisogna essere pronti a togliere il sussidio a chi non dovesse risultare in condizioni di bisogno. Come documentato su lavoce.info, i Comuni che hanno svolto questi controlli sono riusciti a gestire bene strumenti come il Reddito Minimo di Inserimento. Molte amministrazioni, specie al Sud, non sono oggi altrettanto efficaci. Dovranno divenirlo per beneficiare del reddito minimo garantito: va concesso solo ai comuni che si dimostrano in grado di attuare i controlli e in cui si riscontrano progressi sensibili nella lotta all'evasione.

Sarà proprio l'efficacia nella lotta al sommerso a dettare i tempi anche di altre riforme "a costo non-zero". Il fallimento della lotta al sommerso in questa legislatura non ha stupito (le misure introdotte sembravano fatte apposta per risultare inefficaci come rilevato su questo sito all'atto della loro introduzione) e non deve scoraggiare altri tentativi, meglio strutturati e più credibili (come si fa a credere nelle intenzioni di contrastare il sommerso di chi trova condoni per tutti e di più?).

Non sarebbe comunque serio varare provvedimenti contando sulle entrate dalla lotta al sommerso. Sono troppo aleatorie nell'entità e nei tempi in cui si manifestano. Ma si possono prendere su questo piano impegni condizionati: per esempio, ogni euro in più recuperato nell'ampliamento della base imponibile verrà destinato a ridurre le imposte sui redditi, in un disegno di graduale (ma realistica) riduzione delle tasse, a parità di pressione fiscale. Saranno poi la crescita economica e i piani di convergenza a determinare di quanto potrà ridursi la stessa pressione fiscale, sapendo che ogni punto di crescita del prodotto comporta circa uno 0,25 per cento di miglioramento del disavanzo. Anche su questo piano è possibile prendere con gli elettori impegni condizionati all'andamento dell'economia. Vuol dire sognare stando saldamente coi piedi per terra.

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