Da La Repubblica del 06/05/2005
Originale su http://www.repubblica.it/2005/c/sezioni/esteri/blairvac/prezzoguer/pre...
IL COMMENTO
Il "prezzo" della guerra
di Bernardo Valli
Il prezzo politico pagato da Tony Blair per l'impopolare guerra in Iraq, e le annesse bugie per giustificarla, appare dalle prime proiezioni molto alto. Più alto del previsto. Quasi 60 deputati in meno, stando ai risultati ancora parziali, e suscettibili di sensibili aggiustamenti, al rialzo o al ribasso.
Una perdita che, se si rivelerà stabile nel corso dello spoglio dei voti, non gli impedirà nell'immediato di continuare a governare, ma che rende fragile la sua posizione di primo ministro. Tanto fragile da compromettere la sua capacità di arrivare alla fine della terza legislatura. La sua maggioranza ai Comuni, che era di 161 seggi, scenderebbe, secondo le prime proiezioni, a 66. Sarebbe stata più che dimezzata. Ridotta al punto da rendere insidiosi i franchi tiratori della sinistra del partito (almeno 50, capaci di fare proseliti) annidati nel gruppo parlamentare laburista, e ansiosi di sbarazzarsi del primo ministro, alla prima occasione, appena i tempi saranno maturi.
La maggioranza assoluta aggiudicata per ora al New Labour sarebbe vistosa, rassicurante in altri Parlamenti. Non lo è in Gran Bretagna, dove il sistema elettorale premia con generosità il vincente. E non lo è in particolare per Blair, che deve cavalcare senza sosta il successo per far tacere gli oppositori nel partito, e nello stesso gruppo parlamentare, dove spesso non gli viene perdonata la sua politica economica, giudicata troppo liberista, e soprattutto la sua guerra in Iraq, e le menzogne per giustificarla.
Lo scontro tra le due sinistra, tra il Labour e il Lib Dem, sembra avere favorito i conservatori in molte circoscrizioni. Al punto da consegnare a quest'ultimi decine di seggi in più, rispetto alla precedente legislatura. I liberal democratici hanno compiuto un balzo in avanti, ma non come previsto. Abbastanza per infliggere una ferita al New Labour, ma non abbastanza per poter esibire lo sperato successo.
Si pensava che le imponenti manifestazioni contro la guerra, le accese, aspre polemiche e gli insulti che hanno inseguito Blair durante tutta la campagna elettorale, non avrebbero pesato sul voto. Si era affermata la convinzione che il conflitto in Iraq non era una delle preoccupazioni maggiori per l'insieme dei cittadini britannici. E invece ha in apparenza influenzato molti elettori.
La guerra non ha mobilitato soltanto i pacifisti, gli studenti, ampi strati delle classi professionali cittadine e le minoranze musulmane, che hanno abbandonato il Labour o addirittura le urne. Le elezioni si sono parzialmente trasformate in un referendum su quel preciso tema. L'impopolarità della guerra ha contato almeno quanto la salute, la scuola, l'economia, le tasse, la criminalità, i trasporti, l'immigrazione. nsomma, come i problemi che toccano gli individui nella vita di tutti i giorni, e che si pensava dovessero monopolizzare le elezioni legislative.
Non si può parlare di un plebiscito su un uomo, su un primo ministro discusso e impopolare. Ma c'è stata almeno la tentazione. Per Tony Blair la vittoria è stata storica e deludente, se si confermano le prime proiezioni. Il fatto che fosse annunciata, scontata, non esenta dal definirla storica. Ma le perdite l'hanno più che scalfita. L'hanno ferita. Ridimensionata.
Non è stata soltanto l'usura di otto anni di governo. Lo stesso primato è appassito. Nessun leader laburista, prima di Tony Blair, è vero, aveva mai vinto tre elezioni, una dopo l'altra. Alzi la mano, nei grandi paesi europei, a destra o a sinistra, chi, in questa stagione politica, si sentirebbe in grado di affrontare una prova tanto ambiziosa. Blair l'ha superata. E' formalmente vincente. Ma risulta nelle realtà indebolito. Non con qualche livido. Azzoppato.
La situazione economica ha sostenuto il New Labour. Nessun altro Paese conosce in Europa una crescita del reddito tanto robusta e ininterrotta, un calo della disoccupazione, un'inflazione contenuta, una fiscalità stabile, bassi tassi di interesse. In questo panorama rassicurante sono ben visibili le ombre che rendono spesso inopportuna, o eccessiva l'euforia. I delusi dalla sinistra, scandalizzati dal troppo liberismo, denunciano l'aumento simultaneo di miliardari e di poveri. Mentre tra i liberisti, tutt' altro che delusi, ci si rassegna volentieri: non c'è ("purtroppo") un'alternativa. Ma l'economia non ha impedito la frana di deputati provocata dalla guerra impopolare. Non è stata una diga sufficiente.
E' stato significativo che durante tutta la campagna elettorale Tony Blair avesse al suo fianco Gordon Brown, ministro delle finanze e successore designato alla carica di primo ministro. La coppia non si è mai separata. Erano insieme alla televisione e nei comizi. Né Blair né Brown, ma soprattutto Brown, ha perduto un'occasione per mettere in risalto la loro solidarietà.
Uno zelo teso a dissipare l'impressione, a lungo fondata e non ancora dissipata, di un dissidio tra i due, dovuto agli sgambetti fatti da Blair al vecchio compagno e amico, per metterlo fuori gioco nella corsa alla direzione del partito; e alla tenace volontà di Brown che non ha rinunciato a diventare un giorno primo ministro al posto di Blair. L'esibita solidarietà ha pesato sul voto.
Perché Brown, indiscusso autore del successo economico, ha bilanciato gli effetti negativi della guerra impopolare voluta da Blair. E adesso lui, Brown, appare in una buona posizione per sostituire Blair, forse prima della fine della legislatura che comincia.
Una perdita che, se si rivelerà stabile nel corso dello spoglio dei voti, non gli impedirà nell'immediato di continuare a governare, ma che rende fragile la sua posizione di primo ministro. Tanto fragile da compromettere la sua capacità di arrivare alla fine della terza legislatura. La sua maggioranza ai Comuni, che era di 161 seggi, scenderebbe, secondo le prime proiezioni, a 66. Sarebbe stata più che dimezzata. Ridotta al punto da rendere insidiosi i franchi tiratori della sinistra del partito (almeno 50, capaci di fare proseliti) annidati nel gruppo parlamentare laburista, e ansiosi di sbarazzarsi del primo ministro, alla prima occasione, appena i tempi saranno maturi.
La maggioranza assoluta aggiudicata per ora al New Labour sarebbe vistosa, rassicurante in altri Parlamenti. Non lo è in Gran Bretagna, dove il sistema elettorale premia con generosità il vincente. E non lo è in particolare per Blair, che deve cavalcare senza sosta il successo per far tacere gli oppositori nel partito, e nello stesso gruppo parlamentare, dove spesso non gli viene perdonata la sua politica economica, giudicata troppo liberista, e soprattutto la sua guerra in Iraq, e le menzogne per giustificarla.
Lo scontro tra le due sinistra, tra il Labour e il Lib Dem, sembra avere favorito i conservatori in molte circoscrizioni. Al punto da consegnare a quest'ultimi decine di seggi in più, rispetto alla precedente legislatura. I liberal democratici hanno compiuto un balzo in avanti, ma non come previsto. Abbastanza per infliggere una ferita al New Labour, ma non abbastanza per poter esibire lo sperato successo.
Si pensava che le imponenti manifestazioni contro la guerra, le accese, aspre polemiche e gli insulti che hanno inseguito Blair durante tutta la campagna elettorale, non avrebbero pesato sul voto. Si era affermata la convinzione che il conflitto in Iraq non era una delle preoccupazioni maggiori per l'insieme dei cittadini britannici. E invece ha in apparenza influenzato molti elettori.
La guerra non ha mobilitato soltanto i pacifisti, gli studenti, ampi strati delle classi professionali cittadine e le minoranze musulmane, che hanno abbandonato il Labour o addirittura le urne. Le elezioni si sono parzialmente trasformate in un referendum su quel preciso tema. L'impopolarità della guerra ha contato almeno quanto la salute, la scuola, l'economia, le tasse, la criminalità, i trasporti, l'immigrazione. nsomma, come i problemi che toccano gli individui nella vita di tutti i giorni, e che si pensava dovessero monopolizzare le elezioni legislative.
Non si può parlare di un plebiscito su un uomo, su un primo ministro discusso e impopolare. Ma c'è stata almeno la tentazione. Per Tony Blair la vittoria è stata storica e deludente, se si confermano le prime proiezioni. Il fatto che fosse annunciata, scontata, non esenta dal definirla storica. Ma le perdite l'hanno più che scalfita. L'hanno ferita. Ridimensionata.
Non è stata soltanto l'usura di otto anni di governo. Lo stesso primato è appassito. Nessun leader laburista, prima di Tony Blair, è vero, aveva mai vinto tre elezioni, una dopo l'altra. Alzi la mano, nei grandi paesi europei, a destra o a sinistra, chi, in questa stagione politica, si sentirebbe in grado di affrontare una prova tanto ambiziosa. Blair l'ha superata. E' formalmente vincente. Ma risulta nelle realtà indebolito. Non con qualche livido. Azzoppato.
La situazione economica ha sostenuto il New Labour. Nessun altro Paese conosce in Europa una crescita del reddito tanto robusta e ininterrotta, un calo della disoccupazione, un'inflazione contenuta, una fiscalità stabile, bassi tassi di interesse. In questo panorama rassicurante sono ben visibili le ombre che rendono spesso inopportuna, o eccessiva l'euforia. I delusi dalla sinistra, scandalizzati dal troppo liberismo, denunciano l'aumento simultaneo di miliardari e di poveri. Mentre tra i liberisti, tutt' altro che delusi, ci si rassegna volentieri: non c'è ("purtroppo") un'alternativa. Ma l'economia non ha impedito la frana di deputati provocata dalla guerra impopolare. Non è stata una diga sufficiente.
E' stato significativo che durante tutta la campagna elettorale Tony Blair avesse al suo fianco Gordon Brown, ministro delle finanze e successore designato alla carica di primo ministro. La coppia non si è mai separata. Erano insieme alla televisione e nei comizi. Né Blair né Brown, ma soprattutto Brown, ha perduto un'occasione per mettere in risalto la loro solidarietà.
Uno zelo teso a dissipare l'impressione, a lungo fondata e non ancora dissipata, di un dissidio tra i due, dovuto agli sgambetti fatti da Blair al vecchio compagno e amico, per metterlo fuori gioco nella corsa alla direzione del partito; e alla tenace volontà di Brown che non ha rinunciato a diventare un giorno primo ministro al posto di Blair. L'esibita solidarietà ha pesato sul voto.
Perché Brown, indiscusso autore del successo economico, ha bilanciato gli effetti negativi della guerra impopolare voluta da Blair. E adesso lui, Brown, appare in una buona posizione per sostituire Blair, forse prima della fine della legislatura che comincia.
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