Da Corriere della Sera del 01/05/2005

SEYMOUR HERSH

«Ma perché la stampa Usa non ha voluto indagare su quella maledetta notte?»

I media avrebbero potuto far pressioni sul Pentagono. Come noi facemmo in Vietnam. Qualcuno nella pattuglia che sparò deve essere ancora tormentato da quella morte: se i reporter lo avvicinassero, darebbe indicazioni importanti

di Ennio Caretto

WASHINGTON - Per Seymour Hersh, i retroscena della morte di Calipari non verranno a galla fin quando i soldati che l’uccisero senza volerlo non testimonieranno in pubblico. Il più grande giornalista investigativo d’America, autore di molti best seller, di cui uno sul Vietnam, My Lai , appena pubblicato in Italia, si dichiara «stupefatto» che i media americani non abbiano scavato nella vicenda. Hersh, il primo a denunciare l’anno scorso le torture dei detenuti iracheni in Iraq, accusa il Pentagono di volere chiudere il capitolo dell’agente italiano. E i media americani di non aver indagato.

Che cosa avrebbero potuto fare?
«Premere sul Pentagono, soprattutto quelli che lavorano in Iraq. Il Pentagono cerca sempre di proteggersi, ma con un po’ di coraggio i media potrebbero metterlo con le spalle al muro. È quello che noi facemmo in Vietnam. È ingiusto imputare errori a Calipari e non ai nostri soldati, anche se si tratta di un incidente».

Lei non crede che i media americani ci abbiano provato?
«Non a sufficienza. Avrebbero dovuto insistere quando il Pentagono chiuse la porta in faccia ai media italiani. È vero che oggi è più difficile scoprire la verità perché c'è un esercito di volontari. In Vietnam fu più facile, c’era un esercito di coscritti di cui molti contrari alla guerra. Ma i media Usa sono succubi del Pentagono, troppo spesso fanno da cinghia di trasmissione».

Pensa che qualche soldato parlerebbe?
«Sì. Furono un paio di soldati a denunciare le torture di Abu Ghraib. Qualcuno, nella pattuglia che gli sparò, deve essere ancora tormentato dall’uccisione di Calipari. Se un giornalista americano lo avvicinasse, direbbe qualcosa. Ho passato alcuni giorni in Italia: quando sono tornato, mi ha sorpreso che in America non si parlasse di questa tragedia».

Che cosa successe la notte del 4 marzo secondo lei?
«È problematico dirlo. Sospetto che la pattuglia cadde in preda al panico, per lo più sono ragazzi con scarsa esperienza e un modesto addestramento. Ma sparò solo un soldato impaurito, o spararono in due o tre, su ordine del comandante? È importante scoprirlo, e per questo bisogna interrogarli. Se tutto è chiaro come dice, perché il Pentagono non lo permette?».

Come giudica il comunicato congiunto del Dipartimento di Stato e del ministero della Difesa italiano?
«È un tentativo di evitare una rottura. Ma non so se voi italiani lo appoggerete. Ho visto che in Italia c'è molto risentimento contro l’amministrazione Bush e il governo Berlusconi è in serie difficoltà».

L’amministrazione Bush non ne è preoccupata?
«Lo è, e cercherà di aiutare Berlusconi in qualche modo, non so come, e di rafforzare i legami con l’Italia. Ma non sono certo che ci riesca a breve termine: non credo che la vostra magistratura lascerà cadere l'inchiesta, e non si possono escludere sorprese».

Ritiene motivato il risentimento italiano?
«Certo. Non si tratta così un alleato leale, un governo che ha sfidato la propria pubblica opinione per aiutarci. Anche perché prima o poi tutto verrà a galla: pure da noi l’opposizione alla guerra dell’Iraq cresce».

Lei è considerato un nemico del Pentagono.
«Sono un nemico dei falchi, nel Pentagono ci sono anche colombe, sono loro che mi dicono le cose, da solo non avrei scoperto lo scandalo di Abu Ghraib. Tra parentesi, è una vergogna che l'inchiesta dell'esercito sulle torture abbia scagionato i medi e alti comandi. La responsabilità degli abusi arriva ai nostri vertici».

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