Da La Stampa del 07/04/2005
L’ex guerrigliero prende il posto che in qualche modo fu del feroce Saladino
Mille anni dopo, un altro uomo delle montagne
di Mimmo Candito
Che un curdo potesse diventare presidente dell'Iraq orgoglioso difensore del nazionalismo arabo sarebbe parso, fino a qualche tempo fa, uno di quei racconti fantasiosi con cui Shahrazàd avevo accompagnato le notti lunghe del sultano Harùn ar-Rashìd. Le bombe e i coltelli che in questi mesi sunniti e sciiti si scambiavano tra messaggi feroci dicevano che la politica irachena oggi si decide senza che «la gente della montagna» ci possa mettere il naso; e dunque, non c'era spazio per ambizioni d'altri. In realtà un curdo c'era stato - ma uno da leggenda, uno quasi come il marinaio Sindbàd o lo scaltro Ali Baba - che aveva conquistato il potere sulle terre della Mezzaluna: però è una storia di mille anni fa, e a noi oggi il Salah al-Dhin (il «feroce Saladino») di quel tempo lontano pare solo un mito calato nelle memorie antiche di civiltà perdute. E tuttavia stamani, quando Jalal Talabani, curdo del villaggio di Kelkal, case basse e terra verde di montagna dalle parti di Sulemainya, giurerà sulle pagine del Corano, davanti ai 275 deputati dell'Assemblea Nazionale, che lui prende ufficialmente il posto che fu, in qualche modo di Salah al-Dhin, ma soprattutto di Saddam Hussein, allora davvero sembrerà che in Iraq anche le leggende si possono fare storia.
Ma non è così. E se leggende sembrano realtà, vuol dire allora che, dietro, qualcosa sta ancora nascosta, coperta dalle liturgie che un Paese deve comunque sapersi dare per tentare disperatamente di uscir fuori dalla spirale tragica della guerra. La scelta di Talabani a presidente pro-tempore del nuovo Iraq (sarà un referendum entro il 15 ottobre, e poi le elezioni prima di dicembre, a decidere l'assetto definitivo delle istituzioni) è il frutto d'un lunghissimo braccio di ferro tra gli sciiti stravincitori e i sunniti poco disposti a cedere senza resistenza, un braccio di ferro che alla fine si chiude con una designazione interlocutoria, per poter intanto gestire senza un bagno di sangue la fase del passaggio al tempo nuovo.
Però, come ogni designazione interlocutoria, anche questa lascia irrisolti i problemi di equilibrio politico, religioso, ed etnico, che i marines hanno aperto nel momento stesso in cui acchiappavano per i capelli Saddan Hussein da dentro la sua buca di terra e di angoscia, e lo spulciavano irriverenti davanti all'obiettivo d'un «combat film».
Oggi Saddam, quello stesso Saddam, dovrà guardarsi in tv, nella sua cella dell'aeroporto militare, tutta la cerimonia del giuramento e dell'insediamento. E in quelle immagini a colori, in quella nuova intronazione nei palazzi che per venti e più anni l'avevano invece visto Raìss assoluto e venerato, capirà a forza che, per lui, il suo tempo è finito davvero per sempre. Ma non è che il tempo nuovo sia già un frutto maturo.
Talabani è «un uomo degli americani», nella misura stessa in cui lo sono (quasi) tutti i leader politici cui oggi viene affidata la costruzione del nuovo Iraq. Sono gente - professionisti, banchieri, intellettuali, affaristi, militari, spioni, politicanti d'una stagione bruciata presto dalla fuga all'estero - che nell'esperienza comunque amara e dura della lotta dall'esilio hanno trovato sulla loro strada gli interessi americani, dei servizi segreti della Cia e del Pentagono, che miravano a prendere il controllo delle opposizioni a Saddam, per cercare poi di pilotarne la capacità di penetrazione sociale, una volta che si fosse deciso di chiudere i conti con Baghdad.
Questa «contaminazione» non è necessariamente punitiva, fa parte comunque della lotta politica quando l'assalto a una dittatura deve utilizzare ogni forma di destrutturazione d'un potere. Ma, certo, fin che gli americani in Iraq non saranno riusciti a costruire un livello accettabile di controllo del territorio, la presenza dei marines continuerà comunque a essere vissuta come una occupazione. E coloro che di questa occupazione fanno parte dovranno comunque potersi liberare dei panni odiosi di «agenti dello straniero». Ci vuole tempo. Un Presidente non fa ancora primavera, a Baghdad.
Ma non è così. E se leggende sembrano realtà, vuol dire allora che, dietro, qualcosa sta ancora nascosta, coperta dalle liturgie che un Paese deve comunque sapersi dare per tentare disperatamente di uscir fuori dalla spirale tragica della guerra. La scelta di Talabani a presidente pro-tempore del nuovo Iraq (sarà un referendum entro il 15 ottobre, e poi le elezioni prima di dicembre, a decidere l'assetto definitivo delle istituzioni) è il frutto d'un lunghissimo braccio di ferro tra gli sciiti stravincitori e i sunniti poco disposti a cedere senza resistenza, un braccio di ferro che alla fine si chiude con una designazione interlocutoria, per poter intanto gestire senza un bagno di sangue la fase del passaggio al tempo nuovo.
Però, come ogni designazione interlocutoria, anche questa lascia irrisolti i problemi di equilibrio politico, religioso, ed etnico, che i marines hanno aperto nel momento stesso in cui acchiappavano per i capelli Saddan Hussein da dentro la sua buca di terra e di angoscia, e lo spulciavano irriverenti davanti all'obiettivo d'un «combat film».
Oggi Saddam, quello stesso Saddam, dovrà guardarsi in tv, nella sua cella dell'aeroporto militare, tutta la cerimonia del giuramento e dell'insediamento. E in quelle immagini a colori, in quella nuova intronazione nei palazzi che per venti e più anni l'avevano invece visto Raìss assoluto e venerato, capirà a forza che, per lui, il suo tempo è finito davvero per sempre. Ma non è che il tempo nuovo sia già un frutto maturo.
Talabani è «un uomo degli americani», nella misura stessa in cui lo sono (quasi) tutti i leader politici cui oggi viene affidata la costruzione del nuovo Iraq. Sono gente - professionisti, banchieri, intellettuali, affaristi, militari, spioni, politicanti d'una stagione bruciata presto dalla fuga all'estero - che nell'esperienza comunque amara e dura della lotta dall'esilio hanno trovato sulla loro strada gli interessi americani, dei servizi segreti della Cia e del Pentagono, che miravano a prendere il controllo delle opposizioni a Saddam, per cercare poi di pilotarne la capacità di penetrazione sociale, una volta che si fosse deciso di chiudere i conti con Baghdad.
Questa «contaminazione» non è necessariamente punitiva, fa parte comunque della lotta politica quando l'assalto a una dittatura deve utilizzare ogni forma di destrutturazione d'un potere. Ma, certo, fin che gli americani in Iraq non saranno riusciti a costruire un livello accettabile di controllo del territorio, la presenza dei marines continuerà comunque a essere vissuta come una occupazione. E coloro che di questa occupazione fanno parte dovranno comunque potersi liberare dei panni odiosi di «agenti dello straniero». Ci vuole tempo. Un Presidente non fa ancora primavera, a Baghdad.
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