Da La Repubblica del 12/03/2005

A chi fa paura il made in China

di Federico Rampini

La Lega ha cavalcato l´allarme-Cina per scopi elettorali, ha lanciato una battaglia d´immagine sui dazi pur sapendo che sono illegali (e di sola competenza di Bruxelles). Ma il dramma che vive l´industria dell´abbigliamento non è una sua invenzione. Per raccogliere 350.000 firme contro la valanga delle importazioni asiatiche hanno lavorato assieme Cgil e Confindustria: il patto sociale rivive contro la Cina. E l´emergenza non è solo italiana. L´associazione europea degli industriali tessili chiede a Bruxelles «misure di salvaguardia» (non dazi ma limiti quantitativi all´import).

Negli Stati Uniti a gennaio - il mese in cui sono cadute le barriere all´importazione secondo gli accordi del Wto - le camicie importate dalla Cina sono state 18,2 milioni contro 941.000 nel gennaio 2004: l´aumento è del 1.834%. Nello stesso mese 12.200 operai tessili americani sono stati licenziati. Sindacati, industriali, senatori repubblicani come Elizabeth Dole si appellano a Bush perché «protegga il lavoro americano». Si stima che 700.000 posti siano in pericolo negli Usa, 200.000 in Italia.

L´ascesa della potenza economica cinese provoca reazioni in ogni campo. Ancor prima della liberalizzazione tessile nel 2004 Pechino ha subìto 46 misure protezionistiche da parte di 12 paesi. La paura è inevitabile: l´ingresso di un gigante da 1,3 miliardi di abitanti nell´economia globale cambia il mondo in cui viviamo, nessuno è al riparo dalle sue ripercussioni. La banca Goldman Sachs stima che l´economia cinese avrà superato la Germania in quattro anni, il Giappone in dieci, l´America in 35. Solo la frazione di popolazione cinese definita «fluttuante» - 200 milioni di stagionali irregolari che si spostano fra campagne e città per offrire le loro braccia a buon mercato - supera l´intera forza lavoro degli Stati Uniti. Le dimensioni danno i brividi.

In una lettera a Repubblica la leader dei tessili Cgil, Valeria Fedeli, spiega che il sindacato chiede «il rispetto dei diritti fondamentali» anche per gli operai cinesi. Buona idea. Una settimana fa al Congresso del Popolo a Pechino il procuratore generale ha fornito questo dato ufficiale: l´anno scorso 800.000 cinesi sono stati arrestati o perseguiti per «attentati alla sicurezza dello Stato». Sotto quella definizione rientrano anche scioperi, conflitti sul lavoro, l´organizzazione di sindacati liberi, tutti reati colpiti dalla legge. Delors, quando guidava la Commissione, denunciò il «dumping sociale»: l´apertura delle frontiere può portare una concorrenza al ribasso sui diritti dei lavoratori, se a vincere sono i paesi che non hanno sindacati né Welfare.

Purtroppo i lavoratori cinesi non staranno meglio se l´Europa o gli Stati Uniti bloccano il made in China. Dieci milioni di contadini cinesi che ogni anno abbandonano per sempre i villaggi e si trasferiscono stabilmente in città, lo fanno perché guadagnano dal triplo al quintuplo che nei campi: anche nelle fabbriche insalubri e pericolose, con orari massacranti, senza ferie e senza diritti. Se si ferma la locomotiva cinese per loro sarà una tragedia. E´ come se negli anni 50 la Germania avesse escluso l´Italia dalla Comunità europea, protestando che i nostri operai e braccianti erano sfruttati e sottopagati rispetto ai suoi (lo erano): forse non ci sarebbe stato un miracolo italiano. E´ una trappola micidiale, la pretesa di competere solo con quelli come noi. Perfino tra ricchi non ci s´intende sui diritti. Delors non riuscì a far firmare la Carta sociale alla Thatcher. Ancora oggi il governo Blair rifiuta di applicare le direttive europee sui diritti delle mamme che lavorano. Naturalmente le differenze con Pechino sono ben più profonde. Ma anche se cominciasse oggi in Cina quel che avvenne in Italia dopo il boom del dopoguerra - l´ascesa dei sindacati, l´autunno caldo, le conquiste sociali - quanto tempo ci vorrebbe per far crescere i salari cinesi fino ai nostri livelli? Le differenze di costo nel settore delle calzature sono da uno a sei fra la Cina e noi. Anche in uno scenario ideale, di libera espressione di tutte le rivendicazioni sociali, quanto ci metterebbe la paga cinese a moltiplicarsi per sei? Basterebbero trent´anni? (Attenzione prima di rispondere: dalla creazione del mercato comune europeo nel 1957 a oggi, i salari italiani ancora non si sono allineati a quelli tedeschi). Nel frattempo che cosa sarà accaduto al tessile-abbigliamento made in Italy, se pensa di campare su queste illusioni? Tra l´altro, mentre la Commissione europea esamina la richiesta italiana sul made in China, si appresta a togliere l´embargo sulle forniture militari. Non vogliamo i loro jeans ma speriamo di vendergli radar francesi per lanciamissili, e magari elicotteri Finmeccanica o armi Beretta.

Come esportazione di un «modello sociale» si può fare di meglio. Attenzione alle rappresaglie cinesi. L´economia della Cina è straordinariamente aperta, in molti settori il primo o secondo importatore mondiale. Né possiamo dimenticare che il 59% del made in China che si vende nel mondo intero è prodotto in realtà da imprese europee, americane e giapponesi che hanno delocalizzato. Dozzine di marche italiane sopravvivono solo perché hanno costi cinesi.

Nell´abbigliamento e non solo. Mobili, lampade, occhiali: interi settori dello stile italiano hanno conservato in patria direzione strategica, progettazione e design, ma producono in Cina. E´ la logica specializzazione di un paese avanzato che per i suoi figli vuole un futuro da manager, non da operai. Però lo stile-Italia che si regge sul sudore delle braccia cinesi non lo dice ad alta voce, e questo altera la nostra percezione dei vantaggi-svantaggi della globalizzazione. La contraddizione è così acuta che attraversa una stessa famiglia-simbolo. Ermenegildo Zegna continua ad annunciare nuovi successi in Cina. Paolo Zegna è alla testa degli industriali che raccolgono firme, e volenti o nolenti eccitano gli appetiti elettorali della Lega.

Visto dalla Cina lo spettacolo non è edificante. Facciamo un balzo indietro di 15 anni, agli albori del Wto, e alla preistoria dei negoziati per l´ingresso della Cina. Come testimonia «China´s New Order» di Wang Hui, un intellettuale della New Left cinese, a quei tempi era Pechino ad avere paura ed erano i paesi ricchi a spingere sull´acceleratore. Una forte corrente radicale in seno al partito comunista contrastava l´ingresso nel Wto: nella sua visione la fragile industria cinese sarebbe stata stritolata dalla concorrenza dei paesi avanzati. «Ci è mai stato chiesto allora - dice Wang Hui - se ci piaceva questo vostro ordine mondiale del Wto?» No, ai cinesi non fu chiesto, i vertici del partito blindarono il dibattito. Oggi Cao Xinyu, che rappresenta l´industria tessile cinese, di fronte all´ipotesi di «misure di salvaguardia» da parte dell´Europa è sconcertato: «La liberalizzazione nel tessile è stata una decisione comune, presa dieci anni fa. Se dopo dieci anni di preparazione vi rinchiudete, gettate un´ombra su tutti gli accordi del Wto». Si avverte il senso di ingiustizia di fronte ai paesi ricchi che prima hanno stabilito le regole della globalizzazione, quando erano sicuri di guadagnarci; e ora che hanno delle difficoltà pretendono che la partita sia sospesa e rinviata.

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