Da La Repubblica del 21/01/2005
Originale su http://www.repubblica.it/2004/k/sezioni/esteri/viapowell/millena/mille...

Il millenarismo a stelle e strisce

di Vittorio Zucconi

Apoteosi di un uomo tranquillo, seduto sul trono di un mondo che lo guarda inquieto. Immagine pubblica di un Presidente che finalmente si sente in pace, molto soddisfatto di se stesso e perciò forse ancora più inquietante nella promessa "di abbattere tutti i tiranni", ovunque, magari a partire da quell'Iran che è "al primo posto nella lista dei problemi da risolvere", come il suo vice Cheney ammette. Non ci sono limiti di tempo e di luogo nel suo millenarismo liberatore, e non sembrano esserci state, nei 21 minuti del discorso inaugurale di George W. Bush, quelle frasi a effetto che si scolpiranno indelebili nella memoria. C'è il senso di un uomo che considera il mondo intero come la propria parrocchia.

Forse il freddo, la neve abbondante nei prati davanti al Campidoglio, la folla non grande e percorsa da brividi di protesta e da cartelli "No War", l'enormità del servizio di sicurezza che aveva piazzato un agente in media ogni quattro spettatori, hanno calmato ansie e ardori retorici. Ma l'uomo dal cappotto scuro e dai capelli ormai tutti grigi che ha giurato nelle mani di un morente e coraggioso presidente della Corte Suprema, Rehnquist, ha rivelato una verità personale, più che politica, nel suo portamento, nella sua espressione, nell'occhiata compiaciuta con cenno di affettuosa complicità che ha rivolto a un vecchio signore seduto dietro di lui sul palco, George H. Bush. Come volesse dirgli, papà, ti ho vendicato e ho fatto quello che neppure tu facesti. Io sono stato rieletto.

Probabilmente non c'era neppure bisogno, per gli scrivani della 55esima cerimonia di insediamento presidenziale nella storia americana, di premere troppo sul pedale della retorica, oltre la promessa metaforicamente preoccupante di appiccare ovunque "il fuoco della libertà" fino a quando "brucerà in ogni angolo del mondo" o di accentuare l'individualismo economico, la cosiddetta "società di proprietari", contro l'assistenzialismo del welfare state costruito da Franklin Roosevelt. Tutto quello che doveva dire lo aveva detto nella campagna elettorale, o lo lascia dire al "poliziotto cattivo" del film, Dick Cheney, che agita l'incubo di un attacco all'Iran mentre lui fa il poliziotto buono, e dall'orazione inaugurale si voleva soltanto capire se ci fossero segnali di riflessione e di ripensamento, per il secondo mandato. Non ce ne sono stati. L'uomo tranquillo, che ha preso il posto dell'uomo nervoso che parlò quattro anni or sono, "non ha chiaramente nessuna intenzione di cambiare rotta", ha commentato Michael Deaver, il creatore del mito Reagan.

Ancora una volta ieri, a mezzogiorno spaccato come vuole il cerimoniale, dopo un'americanissimo cocktail di musichette e di omelie, secondo il gusto Broadway and Jesus della nuova ufficialità Usa, Bush ha dimostrato dove siano la sua forza e la sua debolezza, nell'essere incrollabilmente convinto di essere sempre nel giusto dopo una vittoria elettorale che ha cementato in lui le certezze. È giusto rivoluzionare il sistema pensionistico pubblico costruito 70 anni or sono, nonostante due terzi degli Americani, lo dice il Wall Street Journal, non abbiano alcuna voglia di scommettere in Borsa la futura pensione.

È giusto continuare la guerra, ed espanderla se lui lo giudica necessario (la metafora del "fuoco della libertà da appiccare ovunque") anche se persino la folla raccolta lungo la "Via Trionfale" della sua parata raggelata da muri di uomini armati, innalzava dozzine di cartelli pacifisti e anti- Bush. E ormai il 56% degli Americani (lo riferisce sempre il Wall Street Journal) si è persuaso che l'invasione e poi l'occupazione dell'Iraq siano stati un errore, figuriamoci l'Iran.

Lui è stato rieletto, come soltanto 16 presidenti in 230 anni erano riusciti a fare, e non suo padre, e questo gli basta per sentirsi tranquillo, addirittura generoso, quando concede agli Europei sempre più ostili all'America che incarna, che "abbiamo bisogno del vostro aiuto e del vostro consiglio", perché "la nostra forza non è infinita". Nella bolla di amici e cortigiani fedeli che ha costruito attorno a sé come gabinetto per il secondo mandato, liberandosi delle esperte baby sitter che aveva ereditato dal padre, egli vive e agisce in una echo chamber, in una stanza chiusa dove non si ascoltano obiezioni, ma soltanto l'eco delle sue parole.

"Sarebbe disonorevole abbandonare ora i nostri obblighi", dice alludendo all'Iraq, perché tradirebbe "la nostra tradizione" e il discorso è chiuso. Non ci sono nel suo nuovo governo i McNamara che tentarono di spiegare a Lyndon Johnson che il Vietnam stava diventando un pantano di errori e di sangue e che allargare il conflitto all'Iran sarebbe una insensatezza.

Un altro, ma non George W. Bush, si inquieterebbe nel vedere che il suo indice di popolarità galleggia sul filo del 50 per cento, più basso anche di Richard Nixon all'inizio di quel secondo mandato che non riuscì a finire. L'uomo tranquillo è persuaso di avere ricevuto un mandato politico e non, come altre ricerche di opinione indicano, soltanto un attestato di simpatia personale.

Non sembra preoccuparlo neppure la cosiddetta "maledizione del secondo mandato", quella sorta di maleficio che sembra colpire anche i Presidenti più amati nel loro secondo giro sulla giostra della Casa Bianca, il sortilegio che distrusse Nixon, che portó Reagan al malinconico pasticcio dello scandalo Iran-Contra e Clinton all'umiliazione dell'impeachment. Bush vive nella convizione che "la difesa della libertà in America dipende sempre più dall'espansione della libertà nel mondo", come ha detto, e nessuno dentro la bolla della Casa Bianca oserà mai bucare la bolla, perché nella stessa bolla, da Cheney alla nuova Segretaria di Stato Rice, vivono.

Nel 2001, 10 mesi prima lo shock e il risveglio dell'11 settembre, George W. Bush aveva promesso di "show purpose without arrogance", di perseguire gli obiettivi senza arroganza. Il timore del resto del mondo e dell'America che ieri rabbrividiva tra il freddo e le parole di Cheney è che un Bush troppo sicuro di sé esibisca, nel secondo mandato, arroganza senza obbiettivi.

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