Da La Repubblica del 13/01/2005
Originale su http://www.repubblica.it/2004/j/sezioni/esteri/tortureabu/alprocesso/a...

Reportage dal tribunale del Texas che processa Charles Graner accusato di aver organizzato le torture sistematiche dei detenuti

Al processo del "diavolo" dell'inferno di Abu Ghraib

di Carlo Bonini

FORT HOOD (Texas) - Il diavolo di Abu Ghraib, lo "specialista" Charles A. Graner junior, sedicesima brigata di Polizia militare del Maryland, è una sagoma immobile e corpulenta che fatica a stare nell'uniforme verde oliva che ha insozzato con guinzagli, mazze d'acciaio e arnesi di sodomia per musulmani. Ha lo sguardo straniato del bambino, occhiali grandi da seminarista, l'incarnato liscio, ripulito dai baffi e dal ghigno che lo hanno consegnato all'orrore nella notte tra il 7 e l'8 novembre 2003.

L'America lo processa da tre giorni nell'anonimato di questa aula di Corte marziale foderata da pannelli e scranni in mogano scuro, moquette color cenere, pareti dall'intonaco giallo crema. Fort Hood, un punto geografico al centro del Texas, 60 miglia a nord di Austin. Cielo basso, grandi laghi, dolci colline, rivenditori d'auto di occasione, motel a buon prezzo, e carri armati. La casa della 4a divisione di fanteria, della 1a di cavalleria, del 3° corpo d'armata. Il pugno corazzato dell'esercito degli Stati Uniti in Iraq.

Il destino di Graner è affare di simili, che sarà risolto tra simili. Nella giuria siedono 10 uomini. Sette bianchi, due neri, un ispanico. Quattro ufficiali, sei sottufficiali. Tutti veterani delle campagne in Iraq e Afghanistan. Se vorranno consegnarlo ai 17 anni e mezzo di reclusione che per lui chiede l'accusa per 5 capi di imputazione (cospirazione; mancata osservanza dei propri doveri; maltrattamento di persone affidate alla propria custodia; lesioni aggravate; atti osceni), almeno 7 di loro dovranno pronunciare la parola "colpevole". "Al di là di ogni ragionevole dubbio" dovranno stabilire se nella notte di Abu Ghraib lo "specialista" si sia abbandonato alla vena sadica della sua vita disgraziata, alla passione per la sopraffazione che da civile gli era costata il matrimonio e il posto da secondino in un carcere della Pennsylvania o non, piuttosto, agli ordini di chi oggi non siede in quest'aula, ma al riparo delle gerarchie militari.

Il processo è nella risposta a questa domanda. Lo sa Graner, che fissa immobile un punto nel grande schermo dell'aula che ripropone ai giurati gli ingrandimenti dell'orrore di quella notte tra il 7 e l'8 novembre. Il "lavoro" che faceva sui prigionieri e che con feticismo documentava con la sua macchina fotografica digitale. Lo sa il suo avvocato Guy Womack, tenente colonnello dei marines a riposo, che nella sua petulante cantilena di uomo con l'accento del Sud, va ripetendo che "i fatti dimostreranno che Graner ha soltanto obbedito a degli ordini". Lo sa il maggiore Michael Holley, pubblico ministero e ufficiale sornione, che ha voglia di chiudere questa storia presto e in modo esemplare. Interrompendo le responsabilità della "catena di comando" lì dove oggi le fissa quest'aula. Allo specialista Charles A. Graner. Trentasei anni, "1.991,50 dollari al mese" per finire a spaccare ossa in una galera irachena, come documenta il cedolino dello stipendio depositato tra i documenti a disposizione della Corte.

* * *

Il maggiore Holley ha buon gioco. E lo sa quando deposita agli atti un nuovo video con masturbazioni di gruppo tra prigionieri. Chiede il buio in aula. Il maxi schermo illumina il volto di un disgraziato che dice di chiamarsi Hussein Mutar. Sarà questo primo testimone e come lui un secondo - anticipa l'ufficiale - a spiegare cosa significhi quella nuova prova di accusa.

Mutar parla lentamente. La sua deposizione è stata registrata in dicembre a Camp Victory, Bagdad. "Vivo a Bagdad, nella stessa casa dove sono stato prelevato a forza dalla polizia irachena una sera di ottobre del 2003. Mi accusarono di aver rubato una macchina e mi consegnarono agli americani, nel carcere di Abu Ghraib. Sono l'uomo in cima alla piramide di prigionieri nudi ritratta nella fotografia scattata dal caporale Graner la notte tra il 7 e l'8 novembre 2003...".

Holley interrompe la deposizione registrata. Un'immagine proiettata in sovraimpressione mostra la piramide cui Mutar fa riferimento. E il cerchio luminoso con cui, a beneficio dei giurati, lo stesso Mutar indica un corpo di uomo contratto nell'umiliazione e nel terrore, riconoscibile per una cicatrice. Il suo. Il mucchio perde il suo bestiale anonimato.

Il nastro con la voce dell'iracheno riprende a correre. "La notte tra il 7 e l'8 novembre, Garner ci ordinò di uscire dalle celle. Ci fece spingere in uno stanzone dove ci venne ordinato di spogliarci completamente. A chi non faceva in fretta, gli abiti erano tranciati con un coltello. Cominciarono a pestarci, tra le urla e le risate dei soldati. Graner ordinò quindi di masturbarci e mentre lo facevamo girò un video. Poi, ci ammucchiò nella piramide. Io fui picchiato proprio da lui. Al volto, alle ginocchia. Riuscivo solo a sentire le mie urla e quelle dei miei compagni. Quando ci fecero rientrare nelle celle, i pavimenti erano stati allagati. Ci obbligarono a stenderci in quella melma gelida per tutta la notte. Ho pregato di morire...".

Una nuova videocassetta illumina lo schermo di un secondo volto. Ameen Al-Sheikh, siriano. La notte tra il 7 e l'8 novembre 2003 era nella piramide di Mutar. Ad Abu Ghraib, Ameen godeva di pessima reputazione. Con una pistola ottenuta da un secondino iracheno aveva cercato la rivolta e, sparando, aveva trovato nei bracci i colpi di risposta dei GI americani. Racconta: "Non so se Graner fosse o meno il responsabile. So che dava gli ordini. So che è un uomo cattivo. Quella notte, mi camminò sulla ferita da arma da fuoco che avevo alla gamba. E non era la prima volta che mi torturava. Lo aveva già fatto costringendomi a rimanere ammanettato alle inferriate della mia cella per una notte intera, finché la mia spalla non aveva ceduto. Ho visto Graner ordinare ai suoi soldati di pisciare sui prigionieri. Costringere uno dei nostri fratelli a raccogliere e mangiare la sua razione di cibo dal fondo di una tazza del cesso. Ci imponeva di bere alcool e agli affamati dava carne di maiale, minacciando di violentare le mogli e le figlie di chi rifiutava. Neppure Saddam era arrivato a tanto".

* * *

Lo "specialista" Graner fissa le immagini come se non lo riguardassero. Ha un solo sussulto. Che lo accende di disprezzo. "L'ultima volta che ho visto quel tale Ameen, ha cercato di ammazzarmi", dice. Ma poi torna prigioniero di un silenzio cupo. L'accusa chiama sul banco dei testi il soldato Ivan L. Frederick II e il soldato Jeremy C. Sivitis. I compagni di quella notte di violenze. Hanno patteggiato con l'accusa condanne miti (un anno Sivitis, 8 Frederick) in cambio del colpo di grazia con cui ora giustiziano Graner, senza mai incrociarne lo sguardo.

Racconta Sivitis: "La notte tra il 7 e l'8 novembre, un sottufficiale della polizia militare che indossava un paio di guanti ci diede l'ordine di impilare una serie di prigionieri nudi al centro del braccio. Quell'uomo è seduto in quest'aula. E' il caporale Graner...". Quell'uomo, prosegue, faceva mostra di essere il padrone del braccio, delle vite dei suoi prigionieri. "La pratica di ammanettare i prigionieri alle sbarre delle loro celle era abituale. Se ne occupava personalmente Graner. Una volta gli vidi stringere a tal punto le manette di un detenuto che le mani di quel poveretto diventarono viola. Ero convinto che avrebbe perso gli arti. Dimostrava di essere molto sicuro di quel che faceva e lo documentava in modo ossessivo. Non faceva altro che scattare foto. Una volta, mi mostrò quella di una irachena di 19 anni a seno scoperto e mi disse che, purtroppo, non era riuscito a fotografarle il pube". Della sopraffazione, Graner sembrava godere.

Ancora Sivitis: "Una volta si accanì su un prigioniero accusato di violenza sessuale su un ragazzo. Cominciò a tempestargli le tempie di pugni, finché quello non svenne. Io provai a farlo smettere. Gli dissi: "Signore, credo che il prigioniero abbia perso conoscenza..". E lui, guardandosi le nocche del pugno, scoppiò a ridere e disse: "Cazzo, fanno male, eh?"".

Ivan L. Frederick è un ragazzone alto, con un taglio di capelli che rende la testa ancor più piccola di quanto già non sia e due occhi infossati, che sembrano seguire il filo di un ragionamento non necessariamente legato alle domande che gli vengono rivolte. Ha picchiato con Graner. Sta già scontando il prezzo di quelle sevizie. "Quando la nostra unità arrivò ad Abu Ghraib - racconta - chiesi ai ragazzi dell'unità che rimpiazzavamo per quale motivo i prigionieri dovessero rimanere nudi e indossare biancheria intima da donna sulla testa. Mi venne risposto che le cose, ad Abu Ghraib, andavano in quel modo e che se l'intelligence militare lo chiedeva, il lavoro andava fatto. Graner era un interprete entusiasta di quell'andazzo. Tanto che ricevette l'apprezzamento degli ufficiali dell'intelligence militare. Poi, cominciò ad essere sempre più aggressivo, fino a quando io non ce la feci più a stargli dietro...".

L'avvocato Guy Womack ha un guizzo. Vede un primo spiraglio. Lo incalza. "Dunque, era l'intelligence militare a stabilire che venissero usati certi metodi?". "Posso dire che quando chiesi direttamente ad un ufficiale dell'intelligence militare come andasse fatto il lavoro, mi rispose: "Non me ne frega un accidente di come lo fai, purché lo fai e purché i prigionieri restino vivi". L'unica istruzione che ci venne data era di lavorare sui "punti di pressione"". Womack: "Posso chiederle cosa intendeva l'intelligence militare per "punti di pressione"?". "Le aree della cute che provocano dolore". Womack sorride. "Era quello che volevo sentirmi dire...".

Il maggiore Holley si drizza come chi avverte un improvviso pericolo. Fa due sole domande: "Soldato Frederick, eravate consapevoli che quanto facevate lei e il caporale Graner nel carcere di Abu Ghraib era contrario alla legge?". "Si, Signore". "Soldato Frederick, qualche ufficiale dell'intelligence militare vi ha mai ordinato di usare guinzagli e bastoni sui prigionieri. Di usare violenza sui loro corpi?". "No, Signore".

* * *

La difesa prova ad allargare il varco con il sergente Brian Lipinsky, sottufficiale dell'unità in cui Graner prestava servizio. Womack gli chiede conto del rapporto con cui, il 16 novembre 2003, diede atto dell'apprezzamento che per il lavoro del caporale nutriva l'intelligence militare. Lipinsky conferma quelle note, ma ne aggiunge il contesto. E sono ancora brutte notizie per Graner. "In quel periodo, Graner aveva cominciato a tirare la corda. Il suo comportamento si era fatto eccentrico, sia nel modo di presentarsi e vestire l'uniforme, sia nel modo di interpretare le generiche direttive dell'intelligence sulla necessità di ammorbidire la resistenza dei prigionieri".

Non va meglio con Thomas Archambault. E' un curioso ex sottufficiale di polizia. Si presenta (e così lo presenta la difesa) come "esperto in tecniche di coercizione sui detenuti". Prova a spiegare alla Corte che, per quel che gli consta, "Graner ha fatto un uso ragionevole della forza. Che, dato il contesto, chiunque, si sarebbe comportato in quel modo". Che "guinzagli e pile di corpi umani, non sono una novità nelle tecniche di controllo dei detenuti".

Il presidente della Corte, il colonnello James L. Pohl, ha una fiammata d'ira. Investe l'avvocato Womack. E le sue parole sembrano anticipare il giudizio. "Mi stia bene a sentire, avvocato, perché non glielo ripeterò una seconda volta. Se lei sta provando a far entrare in questo processo valutazioni ipotetiche su quale grado di sofferenza abbiano provato i prigionieri di Abu Ghraib, se lo scordi. A questo signore, vale la pena chiedere una sola cosa e sono io a fare la domanda: esiste un qualche manuale adottato in un qualunque penitenziario americano, civile o militare, che prevede l'uso di guinzagli e di piramidi umane come tecnica legittima di coercizione?". Archambault è una statua di sale. La risposta, un monosillabo che lo congeda: "No, Signore. Non esiste". Lo specialista Graner, per la prima volta, si piega su se stesso.

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