Da Corriere della Sera del 11/01/2005
Dopo le elezioni del 30 gennaio la presenza delle forze Usa potrebbe ridursi. Ma è necessario che si ampli il ruolo della Nato
Washington studia una via d’uscita dall’Iraq
Sul tavolo «l’opzione filippina»: andarsene su richiesta del governo locale come da Manila nel ’92
di Ennio Caretto
WASHINGTON - Al dipartimento di Stato la chiamano «l’opzione filippina»: è il graduale disimpegno degli Stati Uniti dall'Iraq su richiesta dello stesso Iraq, dopo le elezioni del 30 gennaio. La diplomazia americana la prospetta nel quadro di un dibattito che si è aperto nell’amministrazione: fino a quando restare e come venire via da Bagdad. Dieci anni fa, le Filippine chiesero all'America di ritirare a poco a poco le sue truppe, ospitate troppo a lungo e divenute motivo di tensione. Se il futuro governo iracheno, che sarà formato dopo il voto alla fine del mese, facesse altrettanto, la Casa Bianca avrebbe un'insperata via d'uscita dall'impasse in cui oggi si trova.
E' stato il New York Times a svelare l'opzione filippina in un articolo sul «tema più caldo» della politica Usa, il disimpegno dall'Iraq. Il giornale sottolinea che sinora Bush non ha voluto prendere in considerazione nessuna «exit strategy» e ieri il presidente ha ripetuto che «le elezioni porteranno la democrazia a Bagdad» e che gli Usa «completeranno la loro missione: mettere gli iracheni in grado di difendersi». Ma la Casa Bianca non potrebbe respingere la richiesta di un nuovo governo di ridurre il numero degli effettivi americani, attualmente pari a 150 mila. «Nell'amministrazione - ha scritto il New York Times - ci si chiede se non sia proprio il loro alto numero ad alimentare l'insurrezione».
L'opzione filippina fu discussa pubblicamente lo scorso ottobre dal generale dei marines James Conway al ritorno dall'Iraq. Senza definirla tale, Conway affermò che «poco dopo le elezioni potrebbe cominciare un lento ritiro delle nostre truppe, non su decisione del Pentagono ma perché lo vorranno gli iracheni». Secondo fonti anonime vicino alla Casa Bianca, Bagdad non ha ancora trasmesso segnali in tal senso. Ma un anonimo funzionario ha ammesso che «dopo il 30 gennaio sarà uno show tutto iracheno». E in un'intervista alla radio, il ministro della Difesa Donald Rumsfeld ha escluso un rafforzamento delle forze Usa: «Non vogliamo che appaiano sempre più truppe di occupazione».
Perché l'opzione filippina si concretizzi, gli Stati Uniti hanno tuttavia bisogno dell'appoggio della Nato. Lo ha ricordato Brent Scowcroft, ex consigliere di Bush padre: «Quando si recherà a Bruxelles il 21 febbraio, il presidente dovrà ammonire gli alleati che se si abbandonasse di colpo l'Iraq, le conseguenze sarebbero molto gravi per tutti». E lo ha sottolineato ieri l'ambasciatore Usa alla Nato, Nick Burns: «Dopo le elezioni, la missione di addestramento dell'Alleanza in Iraq dovrà ampliarsi, chi non lo fa già dovrà prendervi parte. Non ci sarà nulla di più importante nel 2005 per quanto riguarda gli iracheni. Due anni fa fummo in disaccordo sulla guerra, ma ora siamo tutti d'accordo sulla stabilità dell'Iraq».
Secondo il New York Times , l'opzione filippina sarebbe la più accettabile anche per il Congresso, allarmato del costo elevato del conflitto, 4,5 miliardi di dollari al mese, e in contrasto col Pentagono sul ritardo nell'addestramento di esercito e polizia iracheni. I senatori repubblicani John McCain e Chuk Hagel, eroi della guerra del Vietnam, hanno criticato Rumsfeld, che è stato costretto a mandare l'ex generale dell'aeronautica Gary Luck a Bagdad per un'inchiesta. «Se dovessimo aspettare che gli iracheni siano in grado di difendersi da soli - ha protestato Hagel - non verremo mai più via dall'Iraq». Un graduale disimpegno Usa non comporterebbe però un ritiro totale delle truppe. L'ex generale Tommy Franks, che comandò l'invasione dell'Iraq, ha dichiarato il mese scorso che «forze Usa rimarranno a Bagdad per altri 3-5 anni, forse 10». Alla fine, sarà la politica interna Usa a decidere, come sempre. Nel novembre 2006 si svolgeranno le elezioni congressuali di metà mandato. Qualunque esso sia, Bush non potrà ignorare il responso delle urne.
E' stato il New York Times a svelare l'opzione filippina in un articolo sul «tema più caldo» della politica Usa, il disimpegno dall'Iraq. Il giornale sottolinea che sinora Bush non ha voluto prendere in considerazione nessuna «exit strategy» e ieri il presidente ha ripetuto che «le elezioni porteranno la democrazia a Bagdad» e che gli Usa «completeranno la loro missione: mettere gli iracheni in grado di difendersi». Ma la Casa Bianca non potrebbe respingere la richiesta di un nuovo governo di ridurre il numero degli effettivi americani, attualmente pari a 150 mila. «Nell'amministrazione - ha scritto il New York Times - ci si chiede se non sia proprio il loro alto numero ad alimentare l'insurrezione».
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Perché l'opzione filippina si concretizzi, gli Stati Uniti hanno tuttavia bisogno dell'appoggio della Nato. Lo ha ricordato Brent Scowcroft, ex consigliere di Bush padre: «Quando si recherà a Bruxelles il 21 febbraio, il presidente dovrà ammonire gli alleati che se si abbandonasse di colpo l'Iraq, le conseguenze sarebbero molto gravi per tutti». E lo ha sottolineato ieri l'ambasciatore Usa alla Nato, Nick Burns: «Dopo le elezioni, la missione di addestramento dell'Alleanza in Iraq dovrà ampliarsi, chi non lo fa già dovrà prendervi parte. Non ci sarà nulla di più importante nel 2005 per quanto riguarda gli iracheni. Due anni fa fummo in disaccordo sulla guerra, ma ora siamo tutti d'accordo sulla stabilità dell'Iraq».
Secondo il New York Times , l'opzione filippina sarebbe la più accettabile anche per il Congresso, allarmato del costo elevato del conflitto, 4,5 miliardi di dollari al mese, e in contrasto col Pentagono sul ritardo nell'addestramento di esercito e polizia iracheni. I senatori repubblicani John McCain e Chuk Hagel, eroi della guerra del Vietnam, hanno criticato Rumsfeld, che è stato costretto a mandare l'ex generale dell'aeronautica Gary Luck a Bagdad per un'inchiesta. «Se dovessimo aspettare che gli iracheni siano in grado di difendersi da soli - ha protestato Hagel - non verremo mai più via dall'Iraq». Un graduale disimpegno Usa non comporterebbe però un ritiro totale delle truppe. L'ex generale Tommy Franks, che comandò l'invasione dell'Iraq, ha dichiarato il mese scorso che «forze Usa rimarranno a Bagdad per altri 3-5 anni, forse 10». Alla fine, sarà la politica interna Usa a decidere, come sempre. Nel novembre 2006 si svolgeranno le elezioni congressuali di metà mandato. Qualunque esso sia, Bush non potrà ignorare il responso delle urne.
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