Da La Stampa del 07/01/2004
Il passo indietro di Bush
di Aldo Rizzo
A un certo punto era parso che nemmeno una catastrofe epocale come quella abbattutasi il 26 dicembre su una grande area del pianeta, e il cui costo in vite umane forse non sarà mai definito fino in fondo, servisse a creare una concreta solidarietà nella comunità internazionale. Non che mancassero aiuti immediati e promesse di altri maggiori, anzi era nata quasi una gara di generosità, da parte dei governi e ancor più da parte delle popolazioni, soprattutto in Occidente o nel mondo ad esso assimilabile, come il Giappone e l'Australia. Ma subito la generosità aveva mostrato risvolti politici, magari comprensibili, ma poco consoni alla gravità del momento. Come se chi più dava o prometteva esigesse maggiore autorità, o si riservasse maggiori profitti d'immagine, e d'influenza, in concorrenza con gli altri donatori.
Tipico, nei primi giorni, il comportamento della superpotenza americana. Dopo un'esitazione iniziale, quasi non avessero ancora percepito l'enormità della tragedia, gli Stati Uniti chiesero il comando delle operazioni umanitarie, defilando o ignorando l'Onu e dando vita a una coalizione specifica di Stati. Era trasparente il desiderio di opporre davanti al mondo povero, specie se islamico, una controimmagine, tutta positiva, rispetto a quella, a dir poco discussa, della guerra in Iraq. Un desiderio anche legittimo, dal punto di vista nazionale, ma che rischiava contraccolpi internazionali, anche fra gli alleati, prospettando un «egemonismo» buono per tutte le stagioni.
E' stato il capo uscente (in grande stile) della diplomazia americana, Colin Powell, al vertice dei Paesi donatori svoltosi ieri a Giakarta, ad annunciare il passo indietro della superpotenza. La coalizione, ha detto, è servita a catalizzare subito il problema degli aiuti internazionali, ora il compito di coordinarli spetta alle Nazioni Unite. E il loro segretario generale, Kofi Annan, ha subito raccolto il messaggio, affermando che «a una catastrofe globale senza precedenti» dovrà seguire «una risposta globale senza precedenti». Vediamo. Speriamo. Anche al di là, se è possibile, della tragedia dell'Oceano Indiano, verso la fine o la riduzione degli «unilateralismi», non solo americani. E sempre che l'Onu stessa, nelle sue strutture di gestione, da Annan in giù, non sempre impeccabili, sappia cogliere quest'occasione drammatica e cruciale per un suo rilancio.
Tipico, nei primi giorni, il comportamento della superpotenza americana. Dopo un'esitazione iniziale, quasi non avessero ancora percepito l'enormità della tragedia, gli Stati Uniti chiesero il comando delle operazioni umanitarie, defilando o ignorando l'Onu e dando vita a una coalizione specifica di Stati. Era trasparente il desiderio di opporre davanti al mondo povero, specie se islamico, una controimmagine, tutta positiva, rispetto a quella, a dir poco discussa, della guerra in Iraq. Un desiderio anche legittimo, dal punto di vista nazionale, ma che rischiava contraccolpi internazionali, anche fra gli alleati, prospettando un «egemonismo» buono per tutte le stagioni.
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