Da Corriere della Sera del 28/12/2004
Il ministro dell’Economia, Lavagna: a gennaio l’ultima offerta sul rimborso dei bond. La strategia della «fiducia interna»
«Siamo alla svolta, l’Argentina si sta riscattando»
Dal default nel 2001 allo sviluppo a ritmo dell’8%. Il no alle ricette del Fondo monetario
di Ennio Caretto
WASHINGTON - Per il Fondo monetario internazionale, che l'ha vista fare esattamente il contrario di quanto le aveva prescritto, e per le grandi banche americane, che non hanno ancora potuto riscuotere i loro crediti, l'Argentina è il miracolo dell'anno. A un triennio dalla massima bancarotta della storia - deve al resto del mondo, Italia inclusa, 167 miliardi di dollari - l'Argentina è in pieno risorgimento economico. Il prodotto interno lordo è aumentato dell'8% annuo, tassi quasi cinesi, la disoccupazione è diminuita dal 20 al 13%, la moneta e l'inflazione sono stabili, il bilancio dello Stato e i conti correnti sono in attivo, e il Paese possiede riserve di valuta straniera per 19 miliardi e mezzo di dollari. L'Argentina non può dire di avere già vinto la battaglia, il 43% della gente, contro il 53,5% nel 2002, vive tuttora sotto il livello di povertà. Ma nelle parole del suo ministro dell’Economia Roberto Lavagna, «si sta riscattando», e progetta di fare «la sua ultima offerta» sul parziale pagamento del debito esterno alla fine di gennaio.
Secondo la «economic correctness» di Washington, resta un rebus come la grande malata del Sud America sia riuscita a curarsi parzialmente (è ritornata ai livelli del '98-’99, prima della crisi). Il Fondo monetario e le banche volevano che praticasse l'austerità e pagasse i debiti, sostenendo che in caso contrario non avrebbe mai più attirato capitali stranieri, e non si sarebbe ripresa.
L'Argentina invece ha stimolato la domanda interna, imposto tasse sull'export e sulle transazioni finanziarie, e ignorato i creditori. Nel 2001 e 2002 fu trattata dalla comunità internazionale come un lebbroso. Ma dal 2003, mentre l'Occidente continuava a ignorarla, le potenze sudamericane emergenti, il Brasile e il Messico in testa, ripresero a investire, subito imitate da quelle asiatiche, dalla Cina alla Corea del Sud. Spiega Lavagna: «Si resero conto che gli argentini riportavano in patria i capitali mandati all'estero, e si rimboccavano le maniche: per la prima volta in tre anni, abbiamo più soldi che rientrano che non soldi che scappano».
Il ministro polemizza col Fondo monetario e le banche americane: afferma che la loro era la ricetta del disastro, attribuisce il miracolo argentino alla politica economica del presidente Nestor Kirchner, il peronista insediato nel maggio 2003, e garantisce che gli investimenti stranieri saranno sicuri e redditizi soprattutto nell'agricoltura e nell'energia. Ma il Fondo e le banche americane rifiutano la etichetta di Cassandre, dicono che l'Argentina si è giovata sinora di fattori esterni, dagli alti prezzi delle materie prime ai bassi tassi d'interesse, e che dovrà abolire le tasse introdotte e saldare i debiti per ottenere i crediti necessari per l'espansione nel 2005. Il Centro di ricerca della politica e l'economia di Washington, un serbatoio di cervelli «liberal», non è d'accordo: «Ha ragione Lavagna», proclama il suo direttore Mark Weistrob. «Negli ultimi 25 anni, la maggioranza dei Paesi che si sono adeguati alle nostre banche e al Fondo hanno fatto fiasco».
Non è d'accordo neanche il monetarista Steven Hanke, secondo il quale «le economie vanno incentivate non imbrigliate». Quella dell'Argentina è una bella storia natalizia, rileva Hanke, che però può svilupparsi ulteriormente: «L'Argentina ha parecchia strada da fare, è solo agli inizi, può ancora inciampare. Ma ha il merito di avere messo in dubbio per la prima volta i dettami del Fondo e del nostro sistema». I suoi investimenti, aggiunge, hanno raggiunto il 19,1% del prodotto interno lordo, vicino al record del 19,9% degli anni Novanta, anche senza il contributo occidentale. Che cosa significa per chi da tempo attende invano di essere ripagato dei suoi prestiti, come molti italiani? Lavagna condiziona ogni pagamento al progresso economico: «Non si può riscuotere nulla da un Paese che non sia in crescita», osserva. E cita la fiducia della Cina, che ha promesso investimenti per 20 miliardi di dollari.
Secondo la «economic correctness» di Washington, resta un rebus come la grande malata del Sud America sia riuscita a curarsi parzialmente (è ritornata ai livelli del '98-’99, prima della crisi). Il Fondo monetario e le banche volevano che praticasse l'austerità e pagasse i debiti, sostenendo che in caso contrario non avrebbe mai più attirato capitali stranieri, e non si sarebbe ripresa.
L'Argentina invece ha stimolato la domanda interna, imposto tasse sull'export e sulle transazioni finanziarie, e ignorato i creditori. Nel 2001 e 2002 fu trattata dalla comunità internazionale come un lebbroso. Ma dal 2003, mentre l'Occidente continuava a ignorarla, le potenze sudamericane emergenti, il Brasile e il Messico in testa, ripresero a investire, subito imitate da quelle asiatiche, dalla Cina alla Corea del Sud. Spiega Lavagna: «Si resero conto che gli argentini riportavano in patria i capitali mandati all'estero, e si rimboccavano le maniche: per la prima volta in tre anni, abbiamo più soldi che rientrano che non soldi che scappano».
Il ministro polemizza col Fondo monetario e le banche americane: afferma che la loro era la ricetta del disastro, attribuisce il miracolo argentino alla politica economica del presidente Nestor Kirchner, il peronista insediato nel maggio 2003, e garantisce che gli investimenti stranieri saranno sicuri e redditizi soprattutto nell'agricoltura e nell'energia. Ma il Fondo e le banche americane rifiutano la etichetta di Cassandre, dicono che l'Argentina si è giovata sinora di fattori esterni, dagli alti prezzi delle materie prime ai bassi tassi d'interesse, e che dovrà abolire le tasse introdotte e saldare i debiti per ottenere i crediti necessari per l'espansione nel 2005. Il Centro di ricerca della politica e l'economia di Washington, un serbatoio di cervelli «liberal», non è d'accordo: «Ha ragione Lavagna», proclama il suo direttore Mark Weistrob. «Negli ultimi 25 anni, la maggioranza dei Paesi che si sono adeguati alle nostre banche e al Fondo hanno fatto fiasco».
Non è d'accordo neanche il monetarista Steven Hanke, secondo il quale «le economie vanno incentivate non imbrigliate». Quella dell'Argentina è una bella storia natalizia, rileva Hanke, che però può svilupparsi ulteriormente: «L'Argentina ha parecchia strada da fare, è solo agli inizi, può ancora inciampare. Ma ha il merito di avere messo in dubbio per la prima volta i dettami del Fondo e del nostro sistema». I suoi investimenti, aggiunge, hanno raggiunto il 19,1% del prodotto interno lordo, vicino al record del 19,9% degli anni Novanta, anche senza il contributo occidentale. Che cosa significa per chi da tempo attende invano di essere ripagato dei suoi prestiti, come molti italiani? Lavagna condiziona ogni pagamento al progresso economico: «Non si può riscuotere nulla da un Paese che non sia in crescita», osserva. E cita la fiducia della Cina, che ha promesso investimenti per 20 miliardi di dollari.
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