Da Corriere della Sera del 31/12/2004

La pietà di Antigone davanti a quei corpi

di Dacia Maraini

Le fotografie, come ci è stato spiegato dalla grande saggista Susan Sontag, morta in questi giorni, sono abitate da una grande ambiguità. Esse rivelano, ma anche nascondono, pretendono di dire il vero ma ci mostrano una realtà manipolata e prescelta. Esse additano, ostentano una minuscola parte del tutto, facendoci credere che esso sia l’universo intero, presumono di farci sentire testimoni di un evento che per la verità ci è lontano e sconosciuto. Ma spesso furbescamente vogliono solo rassicurarci, come a dire che noi non siamo lì in quel fango, in quelle acque assassine, ma siamo salvi a casa, e che possiamo lavarci la coscienza con un piccolo contributo. In questi giorni di tragedia, in cui assistiamo impotenti e amareggiati all’orrore di tutti quei corpi che il mare via via restituisce sulle spiagge dei Paesi colpiti dal terremoto, dobbiamo chiederci fino a che punto sia lecito concedere allo sguardo del pubblico la nudità cruda della morte.

Corpi gonfi, nudi o seminudi, in posizioni che mai avrebbero preso nella vita. Aperti, arresi, sgangherati e privi di dignità. Certo, non è colpa di nessuno se sono stati conciati a quel modo, certo è la furia del mare che li ha resi grotteschi, come dei pupazzi gettati in un canto senza interesse, dopo una recita ben fatta. Sono corpi spogliati dalla violenza dell’acqua, sfigurati dal fango, feriti dai mille oggetti che hanno incontrato nel loro sballottamento fra acqua e terra. È vero. Ma sono comunque corpi di persone, donne e uomini che hanno avuto una loro integrità, una loro compostezza e che mai avrebbero voluto essere visti in posizioni prive di dignità.

Se Antigone fosse viva, sarebbe lì fra quei corpi a coprirli uno ad uno, per poi seppellirli fraternamente. Ma la spregiudicatezza mediatica tende a spogliarci dello spirito caritatevole. Capisco il diritto di cronaca, capisco la libertà di raccontare gli avvenimenti per quello che sono, attraverso la pratica della fotografia. Ma a che serve questa insistenza su quello che è capace di fare la morte su dei poveri corpi sconciati?

Mi si dirà che sono corpi senza identità, irriconoscibili e quindi abbandonati a una inerme anonimità. La macchina fotografica non sta scrutando il volto di una persona con nome e cognome, ma sta ritraendo con oggettiva freddezza, i fatti. E questo a me pare ancora peggio. Come: il privato di chi ha nome e cognome e magari capacità di intervenire con una denuncia, lo si deve preservare, e il privato di chi è senza nome, alla portata di ogni occhio curioso, non va difeso?

I morti non possono coprirsi, perciò dobbiamo farlo noi e sulle loro nudità non dovremmo soffermarci, anche se con sguardo inorridito. La pietà vuole che la palpebra cali pudica di fronte alle testimonianze dell’uomo ridotto a oggetto in balia di una natura scatenata. Quell’occhio che oggi pretende di guardare tutto, scrutare tutto, giudicare tutto, senza riguardo per la privatezza di un essere che è stato abitato dalla vita fino a pochi minuti, poche ore o pochi giorni prima. Un poco di pudore di fronte ai morti.

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