Da Corriere della Sera del 19/11/2004

IL PERSONAGGIO

Il lungo viaggio sulla via d’Israele

di Aldo Cazzullo

Fu quando il buio precoce di novembre andava nascondendo Gerusalemme, gli esaminatori israeliani si ritiravano soddisfatti, i musulmani ignari preparavano i banchetti di Id el Fitr a celebrare l'ascensione di Maometto dalla roccia custodita nella moschea di Omar, e le agenzie di stampa battevano le dichiarazioni di donna Assunta Almirante e Alessandra Mussolini - «Bene viaggio, male giudizi su Salò» -, fu allora che Gianfranco Fini capì che l'abbandono della «casa dei padri» annunciato a Fiuggi era davvero compiuto.La prima visita in Israele, un anno fa, non era soltanto un successo politico; era la metafora del lungo viaggio attraverso il neo e il postfascismo. La destra che aveva trovato la via di Gerusalemme era destinata a perdere qualche pezzo, ma aveva rimosso l'ostacolo più grande sul percorso che poteva condurla al governo del Paese. Per Fini era stata una giornata durissima. «Come diceva Pirandello, gli esami non finiscono mai» aveva concluso ritirandosi nella stanza dell'hotel King David. Era De Filippo, ma rendeva l'idea. Forse il vicepremier avrebbe potuto spingersi più avanti nel discorso del mattino allo Yad Vashem, il museo della Shoah, dove il contesto emotivo avrebbe assecondato qualsiasi strappo. Non andò così, e Fini fu costretto a inseguire per tutta la giornata, annuendo a tutti gli interlocutori. Nacque allora l'equivoco del «fascismo male assoluto», definizione che lui riferì non direttamente al regime ma alla persecuzione degli ebrei e che rinunciò a smentire perché ormai il dado era tratto, il prezzo messo in conto e giudicato consono all'obiettivo: la leadership di un partito che non fosse più ex di nulla e, in prospettiva, dei moderati italiani.

Non era sempre stato così. Ci fu un tempo in cui Fini era tentato dalle scorciatoie, dalle risposte spiazzanti che gli vengono così bene, dai sillogismi da talk-show; quando pensava di cavarsela coniando formule inconfutabili eppure vuote, il fascismo che non si può condannare perché non si era ancora nati e quindi non lo si è conosciuto, la revisione del giudizio su Mussolini affidata alle Iene di Italia 1. La destra italiana era andata al governo nel '94 prima della sinistra. Poi ne era uscita ancora più rapidamente. Se ora potrà, prima della sinistra, esprimere il candidato premier della sua coalizione e parlare a tutti gli elettori, lo si deve anche alla convinzione di Fini, per cui non bastava uscire dalla casa dei padri ma occorreva visitarne altre.

All'isolamento internazionale del primo governo Berlusconi contribuiva la zavorra postfascista. Così, quando la politica gli ha dato una seconda possibilità, Fini si è dedicato alla diplomazia parallela. La vicepresidenza del Consiglio doveva servire pure a questo, a procurargli un lasciapassare per le cancellerie occidentali. Così nell'ottobre 2001, a un mese dal crollo delle Torri e a undici anni dalla visita a Saddam in compagnia di Le Pen, Fini partiva per Washington a incontrare Dick Cheney.

Cominciava una sorta di giro del mondo, che l'ha portato a Nassiriya prima di Berlusconi, a Mosca da Putin, a Kabul come primo straniero (battuto per poche ore Musharraf) a congratularsi con il neoeletto Karzai. La cesura dell'antica ferita con gli ebrei non ha pregiudicato il rapporto con i leader della Lega araba, in particolare re Abdallah di Giordania e Mubarak; incontri propiziati dalla colazione con gli ambasciatori musulmani, nel luglio scorso a Roma, quando Fini prese le distanze dagli estremisti anti-islamici della maggioranza. Non è andata male neppure a Tokio, nonostante l'interprete lo abbia costretto a cantare (stupefatto, Fini intonò «Quel mazzolin di fiori», pare malissimo. Il collega giapponese lo lasciò finire e attaccò una complessa analisi dei rapporti euroasiatici. L'interprete aveva confuso "cantare" con "parlare"). L'ostacolo alla sua piena legittimazione poteva venire paradossalmente dai colleghi europei, alla guida di paesi in cui la memoria del fascismo era più dolorosa. Da qui la richiesta a Berlusconi di rappresentare il governo nella Convenzione chiamata a scrivere la Carta europea. Un incarico che quest'anno gli ha aperto le porte della Moncloa di Madrid e della cancelleria di Berlino.

«Al mio primo intervento alla Convenzione non volava una mosca. Mi stavano esaminando. All'ultima seduta, il presidente Giscard mi ha dato la parola tra gli otto che lui ha indicato come statisti», ha raccontato Fini. Mancate le occasioni del governo Maccanico e della Bicamerale per contribuire a riformare la Costituzione italiana, ha lavorato a quella di Bruxelles. Lui, l'epigono di un partito tenuto per decenni ai margini dell'arco costituzionale. Non solo: dopo aver fatto una dura opposizione a Giuliano Amato in Italia, ha stretto con lui un'intesa personale, suggellata dalla richiesta - accolta - di una prefazione a un saggio sull'Europa. E' così accaduto che l'erede del Msi, dopo aver contribuito a eleggere al Quirinale un ministro dell'Ulivo di formazione antifascista e azionista, sia stato iscritto (con entusiasmo forse non del tutto condiviso dai suoi) nella corrente di pensiero di Norberto Bobbio, del cui lascito Amato trova eco nella distinzione di Fini tra «il valore dell'identità nazionale e il disvalore del nazionalismo»; mentre l'idea dell'Europa delle patrie richiama la definizione di de Gaulle.

Tutto un po' troppo avanti, per un partito dal personale politico palesemente inadeguato, ancora legato a un'area culturale aliena - tranne felici eccezioni - a una riflessione sul passato fascista, e talora a una riflessione tout-court. Non sempre Fini è apparso in sintonia con i dirigenti di An, e forse dovrebbe sceglierne qualcuno fuori dalla schiera degli amici di gioventù. E' accaduto però, come hanno rivelato le indagini di Renato Mannheimer, che il suo elettorato - reale e soprattutto potenziale - ne abbia apprezzato le mosse a sorpresa. Come la più difficile da imporre alla base, il voto agli immigrati, che per Fini è un tassello decisivo nel sistema di una destra moderna, nell'idea di una società legata da un forte nodo di doveri e di protezioni sociali cui corrispondono sicurezza e diritti. Da una parte fermezza su droga e immigrazione clandestina, dall'altra integrazione e solidarietà; da un lato la tradizione della destra nazionale, attrezzata per cogliere il vento della riscoperta dell'identità italiana e dei suoi simboli; dall'altro l'orizzonte di una destra liberale, da costruire sui valori del merito e della responsabilità individuale e sociale. Un progetto forse in anticipo sui tempi di un'Italia brusca e incattivita, dove i discendenti di Salò fanno la parte dei moderati; con il nodo irrisolto del rapporto con Berlusconi.

Quando l'ha volto in competizione, Fini è andato incontro al ridimensionamento elettorale. Nel 2001 non volle deleghe ma la vicepresidenza unica per avere le mani libere, riempire il contenitore vuoto di Forza Italia, placare i colonnelli con ministeri medi e minori, dettare l'agenda del governo all’ombra della leadership carismatica di Berlusconi; ma sulla strada aveva trovato Tremonti. La fine è nota. Ora è il momento decisivo, del potere e dell'azione. A maggio ha conosciuto Bush - «di persona è meglio di quel che dicono» -, a giugno ha incontrato Rumsfeld e la Rice, la settimana scorsa è tornato in Israele. Ora l'eterno segretario di partito che non ha mai amministrato un condominio è atteso dal burosauro della Farnesina, che fu di Sforza, Fanfani, Moro quando lui era bambino o giovane estremista (ma degli Anni Settanta non parla: «So io quel che ho passato. E' tutto pubblico, tutto scritto sui giornali di allora. Io non ne racconterò mai, perché non voglio che tornino mai»). Se l'autore de "Il fascismo del 2000" e il vincitore dei dibattiti tv diventa il capo della diplomazia e il rifondatore della destra italiana, non c'è nulla di cui dispiacersi; semmai è segno che la politica è viva nella sua funzione essenziale di rinnovare le cose, e che gli italiani seri quando cambiano idea la cambiano in meglio.

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