Da La Stampa del 19/11/2004

Una strada segnata

di Pierluigi Battista

GIANFRANCO Fini si insedia alla Farnesina a compimento di un lungo itinerario di consacrazione internazionale. L’impegno nella stesura del trattato costituzionale europeo lo ha elevato allo status di padre costituente di un’Europa culturalmente diversa da quella che si era forgiata nel ripudio delle ideologie sconfitte nella seconda guerra mondiale. Il viaggio a Gerusalemme lo ha definitivamente emancipato dall’atmosfera di sospetto che fino a pochi anni fa circondava un leader politico ancora prigioniero di un vincolo di continuità ideale con il passato fascista. E’ da tempo che Fini considerava essenziale per sé, e per la destra democratica italiana che intende rappresentare, il rito di passaggio che lo facesse crescere dalla dimensione di autorevole capo-partito al rango di statista pienamente titolato, e ogni tappa del suo percorso politico è stata vissuta come frattura necessaria con un’identità delegittimata nell’universo chiuso ed esclusivo della diplomazia internazionale. Ora l’occasione a lungo sospirata gli viene concessa e Fini dovrà dimostrare di saper mettere a frutto il riconoscimento caparbiamente ambìto da almeno un decennio.

Perciò non è un paradosso che la politica estera italiana di cui Fini si prepara ad essere interprete e protagonista sarà molto diversa da quella che il Fini immerso in una temperie culturale precedente avrebbe auspicato. Per istinto e per formazione, la destra non ancora purificata dal rito sdoganatore di Fiuggi era incline ad abbracciare piuttosto una politica non ostile verso i Paesi arabi, vulnerabile al richiamo politico-mitologico della comune matrice mediterranea, diffidente nei confronti di Israele, disposta a transigere sui mezzi adottati, compresi quelli del terrorismo, dalla «causa palestinese». Ferocemente critica nei confronti della «partitocrazia» della Prima Repubblica, la destra in cui Fini è nato e maturato avrebbe semmai registrato più di un’affinità elettiva con la curvatura «andreottiana» della politica estera italiana. E invece Fini, come si è già dimostrato con la mancata partecipazione ai funerali di Arafat, lascia intuire che in cima ai pensieri della nuova Farnesina ci sarà la saldatura del legame di ferro con l’Israele di Sharon, la solidarietà con la guerra al terrorismo secondo i metodi e le strategie elaborati nella Casa Bianca, il rifiuto di una visione antagonistica nelle burrascose relazioni tra l’Europa e l’America. Ma se il tracciato della nuova Farnesina appare segnato, non è tuttavia da escludere che una residua ansia di legittimazione possa ispirare qualche gesto di aperta disponibilità nei confronti della conduzione franco-tedesca della politica europea. Del resto, Fini ha già preferito rinfoderare le polemiche sulla mancata menzione delle «radici giudaico-cristiane» nel preambolo costituzionale europeo pur di non rinunciare all’inclusione del suo nome tra quelli dei costituenti della nuova Europa. Non è detto che, almeno dalla Farnesina, il nuovo ministro degli Esteri non possa trovare l’occasione per liberarsi dall’eterno ruolo di numero due.

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