Da El Pais del 14/12/2004

La differenza di lingue, religioni, comportamenti, tradizioni è la grande forza dell’Unione

Europa, la cultura della libertà

di Mario Vargas Llosa

Un anno prima d’assumere la presidenza dell’Unione Europea, il governo olandese dette incarico al Nexus Institute, centro indipendente diretto da Rob Riemen e specializzato nell’organizzare incontri di cultura e di politica, di riunire intellettuali, statisti e accademici dell’intero spettro ideologico con lo scopo di elaborare un pugno d’idee e di suggerimenti che l’Olanda potesse trasformare in proposte per la costruzione dell’Europa, durante il suo periodo di presidenza.

Rob Riemen ha promosso, così, quattro incontri ai quali hanno aderito centinaia di partecipanti, a Berlino, Varsavia, Washington e Rotterdam. L’ultimo si è appena concluso con una dichiarazione di principi che sarebbe difficile e riduttivo riassumere in poche righe. Per il resto, l’aspetto forse più fertile e appassionante di questi meeting non sono stati i momenti di coincidenza - a favore della democrazia, dell’economia di mercato, della diversità di fede, di lingua e di tradizioni, della solidarietà, della lotta al razzismo e alla xenofobia, della difesa dell’ambiente, eccetera - quanto le accese polemiche suscitate da alcuni temi e, in modo particolare, da quello che, secondo me, ha dato vita agli interventi più lucidi: l’identità culturale dell’Europa.

Non è un fatto puramente accademico; da essa dipende in gran parte la natura prossima di questa comunità o federazione che conta, sino ad ora, 25 stati i quali, in futuro, potranno essere ancora di più. Sulle decisioni rispetto a questo problema influirà, ad esempio, se la Turchia verrà accettata o rifiutata come membro e il tipo di relazioni che l’Europa avrà con gli Stati Uniti. Quest’identità culturale, vale a dire la somma dei profili e delle credenziali condivisi che la rendono diversa dalle altre società e dalle altre culture del mondo, già esiste o dev’essere creata a mano a mano che l’Europa si costruisce come entità politica, economica e amministrativa?

E, in ogni caso, quali sono o dovrebbero essere questi segnali d’identità o di valori essenzialmente europei? Non c’è da meravigliarsi che le differenze su questo tema siano state molto superiori alle coincidenze.

Chi sostiene che il cristianesimo è il segno definitivo e sostanziale del carattere europeo sono in difficoltà nel conciliare quella tradizione con lo spirito delle Luci e le conseguenze dell’Illuminismo, figlio del Vecchio Continente e fonte del laicismo, dei diritti umani e della democrazia nati nonostante l’opposizione pugnace del tradizionalismo cattolico. Non è il giudaismo, inoltre, qualcosa di profondamente radicato nella storia e nella cultura europea? E gli otto secoli di forte influenza musulmana in una parte importante del territorio europeo devono essere sradicati dalla memoria collettiva perché la personalità dell’Europa sia un’unica realtà al di sopra d’ogni discussione?

In ogni caso, come hanno ricordato molti oratori, nel momento in cui si guarda allo specchio per riconoscere la propria immagine, l’Europa non può ignorare che, accanto a dottrine e a princìpi che sono stati di stimolo all’emancipazione e al progresso umano, ha messo in mostra anche orribili fantasie ideologiche che hanno prodotto le peggiori catastrofi mai conosciute dall’umanità: il nazismo, il fascismo, il comunismo e il nazionalismo. Ma, certamente, nessuna civiltà è stata così autocritica e severa con se stessa come quella occidentale che, durante tutta la sua storia, ha sempre avuto nel proprio seno obiettori feroci e implacabili che l’hanno costretta a porsi domande e a riformarsi e a rigenerarsi senza sosta. Per questo l’Europa ha potuto riconoscere la propria responsabilità in orrori come l’antisemitismo e il colonialismo e ha potuto, a poco a poco, riconquistare - anche se mai in modo definitivo e irreversibile - la cultura della libertà.

L’Europa dovrebbe avere una lingua comune? Se si accettasse anche solo la possibilità d’un simile errore, non sarebbe arrischiato immaginare che la scelta dell’idioma privilegiato provocherebbe secessioni, guerre, scontri e avversione: dopo la religione nulla attizza la ferocia umana quanto la lingua. Scartati come vincoli unificatori della società europea la religione e la lingua, che cosa dire degli usi e dei costumi? Esclusi il cannibalismo e i sacrifici umani, ho l’impressione che una delle ricchezze d’Europa sia evidenziare, nelle 25 nazioni che in teoria ormai la compongono, tutte le pratiche, le cerimonie, le usanze, i pregiudizi collettivi e privati che si possono immaginare. Per cui sarebbe impossibile anche solo tentare di separare, in quest’ambito, che cosa sia tipicamente europeo. In ciò che mangiano, in ciò che credono, in ciò che adorano, in ciò che amano e odiano, le donne e gli uomini del Vecchio Continente, invece di riflettere solo loro stessi, riflettono l’intera umanità. In modo che, a mio modo di vedere, ha assolutamente ragione il filosofo polacco Leszeck Kolakowski quando sostiene che «l’identità culturale dell’Europa sta nell’assenza di qualsiasi identità del tutto formata: in altre parole nell’incertezza e nello scontento».

L’Europa deve costruire se stessa rispettando e rinvigorendo la formidabile diversità religiosa, ideologica, politica, culturale delle società che la costituiscono. Questa varietà è il suo miglior patrimonio, ciò che le assicura l’universalità, i ponti e il dialogo con le altre società e le altre culture del mondo. Ma riconoscere questa diversità significa concludere che l’Unione Europea non sia, in futuro, nient’altro che un mercato comune. Al contrario l’unica cosa che può dare all’Europa un solido denominatore comune è che, nello stesso momento in cui costruisce una stretta unità pur nella diversità dei suoi membri, resti articolata in uno scambio permanente con gli altri popoli del mondo grazie alla cultura della tolleranza, del rispetto, della sovranità individuale, della razionalità e d’una chiara distinzione tra privato e pubblico. Non è questa l’unica, ma è la migliore delle tradizioni europee e la più preziosa eredità della civiltà europea al mondo: una cultura della libertà che, anche se ha in Europa le sue radici e le sue fondamenta, non è di nessuno, ma di tutti coloro che vogliano farla propria e trasformarla in uno stile di vita e in uno strumento di progresso e di modernità.

Il risultato più importante che una civiltà può ottenere non è dotarsi d’una identità collettiva che si esprima, in modo simultaneo, attraverso la società nel suo complesso e gli individui che la compongono. E’ esattamente il contrario: aver raggiunto un livello economico, di cultura e di libertà che consenta ai cittadini di emanciparsi dalle identità collettive - quei giochi ai quali nascono sottomessi - e scegliere volontariamente la propria identità in armonia o in disaccordo con il resto della tribù. In tal modo un individuo esercita la propria sovranità ed è autenticamente libero. Non è iattanza affermare che l’Europa ha percorso più strada d’ogni altra comunità di stati e che questo è il motivo principale per cui coloro che, in ogni parte del mondo sono perseguitati per il loro credo, le loro idee, le loro vocazioni e i loro costumi, cercano disperatamente di raggiungere le sue spiagge. E hanno ragione. Perché, per quanto le cose possano andar male nel Vecchio Continente, qui hanno maggiori possibilità, rispetto ai loro paesi, di vivere come vogliono e di essere quel che desiderano senza venire considerati pecorelle smarrite o castigati per aver disobbedito all’obbligo di stare servilmente sottomessi al gregge.

Un’identità collettiva è un ghetto, un campo di concentramento dove un individuo viene clonato in segreto per mantenere viva la fantasia d’una omogeneità che non esiste mai. Nelle società più primitive questa condizione servile dell’essere umano rispetto alla collettività è inevitabile, visto che da essa dipende la sopravvivenza di fronte ai timori e ai pericoli che la circondano: la belva, il fulmine, le tribù nemiche. Ma, a mano a mano che avanzano la conoscenza, il dominio della natura e lo sviluppo della vita sociale, un principio di differenza va aprendosi un varco in questi greggi umani e l’individuo viene fuori, guadagnandosi uno spazio d’iniziativa e di diritti che, alla fine dei secoli, faranno di lui un essere libero e sovrano. Questo processo, che è quello della libertà nella storia, è il maggior merito della storia europea (che Croce, con buon intuito, battezzò «il merito della libertà») e costituisce il miglior fondamento per la costruzione di questa Europa in gestazione: una comunità che deve concepirsi come realizzazione d’un futuro, non come la resurrezione d’un passato.

In questa Europa ideale, democratica, liberale e libertaria, i cittadini potranno scegliere il proprio Dio o non avere dei, praticare una religione o essere atei o agnostici, decidere in quale lingua vogliano esprimersi, quale sesso preferire, il paese, la città o il villaggio dove vogliano vivere e lavorare e non avranno altre limitazioni nell’esercizio delle proprie convinzioni, dei propri costumi e delle propria fede se non quelle che impediscono di forzare il diritto degli altri a esercitare la stessa libertà. Questa Europa non avrà un’identità collettiva perché in essa ci saranno quattrocento milioni di cittadini liberi che rappresenteranno altrettante identità con sfumature e sembiante diversi che, convivendo all’interno di leggi che consacrano questa filosofia del rispetto e della tolleranza, spingerà il pianeta incontro al disegno kantiano della pace universale.

Sembra utopia? Senza dubbio. Però il realismo non consiste nell’abolire il sogno né nel rinunciare a fissarsi obiettivi molto alti, ma nell’avere, ad ogni passo che si compie, una coscienza precisa di dove si è e di ciò che manca per raggiungere la meta. Nessuno avrebbe immaginato che quei sogni impossibili con cui, nel poema di Flaubert, il diavolo tentava Sant’Antonio - arrivare a conoscere l’essenza della materia e camminare sulle stelle - sarebbero stati, un secolo e mezzo più tardi, eventi concreti. I grandi europei della storia, Erasmo, Dante, Shakespeare, Montaigne, Cervantes, Goethe e tanti altri hanno, via via, creato una realtà fatta di idee e di fantasia grazie alla quale l’Europa possiede un patrimonio culturale che è il suo maggior collante. Per questo non ha necessità di ridurre la libertà di scelta dei suoi cittadini per dotarsi d’una ipotetica identità collettiva che riprodurrebbe, all’interno dell’unione europea, il nazionalismo, fonte irrimediabile di divisione e di scontro. L’Europa è una bella idea: a patto che, nella sua gestazione, approfondisca invece di impoverire, la cultura della libertà.
Annotazioni − Articolo pubblicato il 14/12/2004 su "La Stampa".

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