Da Corriere della Sera del 10/12/2004

Un milione e mezzo di persone contagiate, negli ospedali l’impegno dei nostri medici. Nessuno lavora più i campi

Aids, mamme e bimbi lottano curati dai volontari italiani

Mozambico, il virus uccide i contadini: avanza il deserto

di Gianni Riotta

MAPUTO (Mozambico) - Le ragazze in grembiule azzurro guardano intente la tv e dallo schermo fluorescente giovanotti muscolosi e pupe in bikini invadono colorati la corsia grigia. Il reality show è felice, sexy, allegro. Da questa parte della realtà l’Ospedale Generale di Machawa, sobborgo povero di Maputo, ospita malate di Aids, tubercolosi, denutrite croniche. Chi ha la forza di trascinarsi davanti alla tele dimentica la camerata, a pochi passi. Su letti di metallo mal verniciato di bianco, le sagome che il Novecento ha prodotto a Auschwitz, nei gulag sovietici e in Kosovo, scheletri così leggeri da non segnare neppure il lenzuolo ruvido come un sacco di juta. Se siano uomini o donne lo sapete dalla dottoressa Nurjamajia che indica le diverse corsie. Altrimenti occhiaie, pelle scarnita, braccia ossute non distinguono i sessi, così ben definiti nello show.

In terra un saccone è la barella di chi non ha posto, qualcuno consuma l’agonia in terrazzo, l’aria salmastra dell’Oceano riempie i polmoni, qualche usignolo si infila nei buchi della rete e becchetta a terra un chicco di riso. I numeri dell’epidemia Aids in Mozambico, dopo anni di guerra civile, carestia e le recenti alluvioni, sono raccolti dai reporter dell’agenzia Africa News : «Diciannove milioni di abitanti, due terzi con meno di un euro al giorno, nazione poverissima, numero 170 su 175 Paesi. Quattrocentomila morti in cinque anni, 97 mila entro il 31 dicembre. Un milione e mezzo di persone contagiate dal virus Aids, 600 mila orfani, solo 8.000 pazienti in cura».

In ospedale si va a mangiare un po’ meglio della denutrizione, a prendere qualche rara medicina, più spesso a morire. Una visitatrice gentile saluta l’ammalata che la Tbc ha ridotto in agonia e lei ha ancora la forza di fare ciao con la mano, forse l’ultimo gesto umano prima di notte. Le docce sono povere, ripulite con pazienza dagli inservienti, la sedia che serve a rinfrescare chi non si regge in piedi è riparata con il filo di ferro. La miseria si combatte con vera dignità, un vetro sfondato è riparato con un vecchio giornale, il collage accosta il sorriso di Teresa Kerry, la moglie del candidato democratico alla Casa Bianca nata in Mozambico, «Sono una di voi!» e un ritratto del presidente Bush ingiallito dal sole. Silenzio, il cinguettare dei passeri, il calore della giornata estiva, rotto dalla gioia esplosiva della tv: «Ballate con noi!».

Fuori dalla palizzata in cemento, un sentiero coperto di erbacce si lascia alle spalle una grande lavagna nera, «Giornale del popolo», cimelio dei giorni rivoluzionari che attrassero a Maputo tanti sognatori. Pochi passi e vi imbattete in un gigante che si ripara dal solleone sotto un banano ombroso. Cappellone di paglia, alla cintura un fascio di manette luccicanti. Vi guarda senza simpatia, spalleggiato da un giovanotto corrucciato. Sono guardie del Carcere Centrale, hanno portato come ogni settimana i detenuti al Centro Dream, gestito dalla Comunità di Sant’Egidio, per test sull’Aids, medicine, cure. In galera si finisce per poco, un furtarello, una denuncia senza motivazione, mancanza di documenti che costano e non tutti possono permettersi. Una volta dentro, il contagio è ancor più frequente. Seduti a testa bassa, i prigionieri comuni vestono in maglietta e pantaloni sdruciti, i «duri» del braccio di massima sicurezza, grami e spaventati in realtà, sono costretti in un pigiama nero di tre taglie troppo largo. Escono dopo il test, in mano un sacchetto con le medicine, e lo stringono trionfanti, in un Paese dove si ha poco, anche un farmaco per una malattia fatale è un privilegio.

Leonardo Palombi, epidemiologo dell’Università di Roma e volontario di Sant’Egidio, calcola che degli ottomila pazienti in cura in Mozambico 2.230 siano assistiti dalla comunità. David Smock, studioso dell’ Harvard International Review , spiega in un saggio che la credibilità dei cattolici italiani risale al 1992, quando Sant’Egidio mediò con successo la fine delle ostilità tra i guerriglieri del Frelimo e del Renamo. Oggi, una palazzina trasformata in ambulatorio e asilo nido, all’ombra cupa dell’Ospedale Centrale, ospita il progetto Dream, prevenire il contagio madre-figlio, curare gli ammalati, amministrare test a chi teme di essere sieropositivo. Ana Maria era una malata perduta, come quelle dell’Ospedale e mostra fiera la sua vecchia foto da scheletro. I cronisti locali la chiamano «gladiatora», accoglie i visitatori al centro Dream danzando e cantando, racconta «della vergogna, una donna malata è considerata sporca, cacciata da casa con i figli da parenti che dicono, a che serve nutrirvi se presto morirete? Qui abbiamo imparato a vivere senza avvilirci». Accanto a lei gioca Januario, che ha preso il virus dalla mamma ma che lo sciroppo medicinale mantiene robusto. Gabriella, una dottoressa arrivata da Genova, gioca a fargli cucù, mamma Joanna, poco più che una bambina protetta da una bandana color crema, guarda incredula il figlio, incredula di essere viva e con lui.

È il weekend delle elezioni, il vecchio presidente Joaquim Chissano, del Frelimo, lascia dopo 18 anni, fiero del suo record, due anni di crescita al 7% l’anno, fine delle ostilità e della guerra civile, inizio dello sminamento. Il Frelimo rivince, votano in pochi, la spiaggia sull’Oceano è invece affollata. I turisti volano in surf attaccato a un deltaplano, i bambini vendono tartarughe più grandi di loro, nocciole (una libbra per 12.000 meticais, 35 centesimi di euro). Un ristorante affollato come Ostia a Ferragosto offre aragoste, gamberoni e birra aromatica «2M», sulla sabbia una mamma arrostisce pesciolini che i figli corrono a vendere tra i bagnanti. «Gli orti di casa non bastano a sfamare le famiglie - spiega un economista esperto di sviluppo, attento a non bagnarsi nella marea - e serve un po’ di contante, per la scuola, per le medicine. Il pesce alla griglia crea un gruzzoletto, da cui dipende la sopravvivenza».

Marcela Villareal, della Fao, condensa l’economia della domenica d’estate in toni cupi: l’Aids ha spopolato le campagne, il nucleo familiare può permettersi di arare e seminare aree sempre più ridotte di terra e quel che si raccoglie non sfama neppure i parenti prossimi. Muoiono gli uomini che conoscono le sementi più adatte alle stagioni, i giorni della semina e della potatura, muoiono poco più che ragazzi e non fanno in tempo a passare a figli e nipoti la cultura contadina. A ogni funerale la terra perde memoria. L’Aids cancellerà entro 5 anni un quinto dei contadini in Mozambico, un quarto in Namibia, un decimo in Tanzania. Il deserto avanza.

Ana Maria, con in mano il cappelluccio del Milan che le hanno regalato, racconta dell’Aids che sbatte sulla cultura tribale, sull’ignoranza: «Per scacciare gli spiriti dei morti incendiano le capanne degli ammalati, e gli orfani restano senza tetto». Il settimanale Zambeze annuncia trionfante «L’Aids è vinto», e intervista lo stregone «dottor» Boavida Jacob: «Lo spirito di mia madre, impregnato dai miei avi quando ero nel suo grembo, mi ha insegnato quali erbe raccogliere per curare i malati. Non ne ho perso nessuno, basta arrivare in tempo». C’è chi si trascina fuori dal reality show dell’Ospedale Centrale e cade nelle grinfie degli sciamani.

Il professor Palombi sa che il prossimo governo mira a curare 200 mila pazienti, la Comunità è fiera del centro di analisi che svetta al piano nobile di una clinica, computer collegati con l’Italia, programmi capaci di testare fino a 8.000 pazienti in undici ambulatori, con consulenza psicologica, cure e diete. Per ora il sogno di pochi, nelle ambizioni di tanti un piano per il futuro. La distanza tra progetto e realtà non è meno stridente di quella che separa gli attori sexy della tv dalle fanciulle smunte che li guardano lisciando il grembiule che i loro corpi non colmano. Il detenuto in divisa nera tiene i farmaci come un trofeo, un camion con a bordo una coppia di sposini passa festante e i bambini saltano sui rifiuti della discarica di Machawa salutando. Angelica Simewa ha avuto nove gravidanze, un aborto e ha perso due figli, normale in un Paese dove nascono 715 mila bambini all’anno e 130 mila muoiono prima del quinto compleanno: «Non so perché son morti i miei figli, non so come si contagia l’Aids, non so che cosa fare». Il capo Unicef, Marie-Pierre Poirier, regala 50 mila copie di un libretto colorato, «Saude e vida», con le regole per la prevenzione, ma Angelica non sa leggere, nessuno gliel’ha insegnato. Finora.

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