Da La Repubblica del 20/11/2004

Il rimpasto di Bush ha rafforzato l´ala più conservatrice: ecco i nuovi obiettivi politici

Casa Bianca, pressing "neocon" un programma in sette punti

di Riccardo Staglianò

NEW YORK - Parlando dei neocons dovrebbe valere la stessa regola da applicare ai ribelli di Falluja: contare fino a dieci prima di dichiararli spacciati. «L´approccio neoconservatore in politica estera - scriveva il direttore Moises Naim sul penultimo numero di "Foreign Policy" - giace sepolto nelle sabbie dell´Iraq». Principali ideologi della guerra a Saddam Hussein e influenti consiglieri di George Bush su tutti i temi diplomatici, le loro fortune sembravano irreversibilmente compromesse dal sanguinoso andamento del conflitto. E invece, a giudicare dal rimpasto governativo, il loro peso sulle scelte dell´Amministrazione sarà ancora maggiore nel secondo mandato di quanto non lo sia già stato nel primo.

I sintomi del loro invidiabile stato di salute abbondano. «I neocons si sentono assai fiduciosi adesso - spiega Jonathan Clarke, analista del conservatore "Cato Institute", nonché autore di un libro sul fenomeno - le cose stanno andando bene per loro, un gruppo di persone che, in ogni società razionale, dovrebbe essere in cerca di un altro lavoro e invece è stato promosso». La sostituzione di Colin Powell, ultimo argine al loro strapotere, con Condoleezza Rice a segretario di Stato ne è una riprova. Tanto più eloquente dal momento che a farle da vice potrebbe arrivare l´attuale numero tre John Bolton, uno dei più intransigenti sostenitori della linea dura con Iran e Corea del Nord. Non solo: sebbene criticatissimi da vari membri dello stesso partito repubblicano, sia il vicesegretario alla Difesa Paul Wolfowitz che il sottosegretario Douglas Feith, entrambi neocon doc, restano saldamente in sella.

«Ma non è tanto importante chi conquista quale posto - commenta Gary Schmitt, direttore del "Project for a New American Century", uno dei "pensatoi" più organici al movimento - piuttosto conta che il Presidente non si è mai discostato dalla sua agenda politica e l´ha ribadita dopo il 2 novembre: crede che il successo in Iraq sia possibile e non ha alcuna intenzione di permettere all´Iran di acquisire armamenti nucleari». L´Iran, appunto. Ossessione della destra muscolare e dell´ascoltatissimo Michael Ledeen, in particolare. «Non c´è via di scampo dalla guerra contro i mullah», ammoniva già a maggio sulla "National Review Online", lettura prediletta dei neoconservatori. Lo stesso che, come rivelava nei giorni scorsi il Los Angeles Times, suggeriva a una platea di nostalgici dello scià l´"investimento" («per un Iran libero bastano 20 milioni di dollari») di un golpe interno (contattato da Repubblica, Ledeen non ha voluto commentare).

I suoi compagni di ideologia che accettano di parlare ostentano disinteresse per il gioco delle poltrone. Sono le idee a contare per Mark Gerson, curatore dell´"Essential neoconservative reader", la più completa antologia del loro pensiero: «Tutti gli indicatori mostrano che il Presidente continuerà a portare avanti una politica estera ambiziosa, idealistica e coraggiosa che rifletta il credo, non solo neocon, che l´America abbia la speciale missione di sradicare dal mondo la quantità maggiore possibile di male».

Per la pratica c´è ancora tanto da fare. La lista più completa sembra quella stilata dopo le elezioni sempre sulla "Review" da Frank Gaffney, vice-segretario alla Difesa sotto Reagan e fondatore del "Center for security policy": domare Falluja e le altre roccaforti irachene; «cambiare regime, in un modo o nell´altro, in Iran e Corea del Nord»; aumentare le risorse per esercito e intelligence per «combattere la IV guerra mondiale»; migliorare la protezione della madrepatria; «mantenere la lealtà ad Israele»; risolvere il problema di Francia e Germania e ottenere la loro «disponibilità a far causa comune con i nostri nemici»; affrontare le «politiche fasciste della Cina», «l´autoritarismo crescente di Putin», «la diffusione mondiale dell´Islamofascismo e l´emergere di regimi anti-americani in America latina». Sette voci, assicura Gaffney, che «non rappresentano un programma imperialista neocon ma un elenco delle cose da fare che il mondo domanderà a questo Presidente».

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