Da La Repubblica del 22/11/2004

Incontro tra G8, Lega Araba e Unione europea. Washington punta tutto sul voto di gennaio

La sfida della Grande Alleanza l´obiettivo è salvare Bagdad

di Guido Rampoldi

SHARM EL SHEIK - Nel 1956, mentre le artiglierie anglo?britanniche scacciavano l´esercito egiziano dal canale di Suez, il premier britannico Anthony Eden negò che fosse «in corso una guerra: semmai un conflitto armato».

Come allora cambiare i nomi alla realtà non rese meno ingloriosa l´avventura con cui morì la diplomazia delle cannoniere, così domani, su questa costa del Sinai opposta a Suez, l´affollatissima Conferenza internazionale sull´Iraq non raddrizzerà una situazione allarmante fingendo che non lo sia.

Il documento finale, cui oggi daranno l´ultima limatura le avanguardie della grande diplomazia, sarà ricco di buoni auspici e formule incoraggianti, ma astratto quanto una predica durante una sparatoria. Come se nessuno sapesse più che cosa fare, le proposte concrete saranno poche e poco incisive: la più saggia, italiana all´origine, suggerisce al governo iracheno un metodo per coinvolgere i sunniti nel processo elettorale. Non molto di più. Sconfortante? Ad ascoltare la diplomazia ottimista queste giornate avranno soprattutto l´esordio d´una collaborazione nuova tra G8, Unione europea, Lega Araba, Organizzazione dei Paesi islamici, Gruppo dei vicini dell´Iraq. E in futuro lo "spirito di Sharm-el-Sheikh" potrebbe soffiare benigno sull´Iraq. Eppure le parole del documento che chiuderanno questo gran consesso sembrano terribilmente distanti dalla bolgia irachena, perché la verità che non può essere detta, ma neppure dovrebbe essere celata, è che Washington e la Coalizione sono in difficoltà. Avrebbero bisogno d´aiuto ma non possono ammetterlo. Allo stato delle cose la vittoria non sembra alla loro portata.

Per una ragione ormai evidente: tenere a lungo in Iraq i 150mila soldati necessari oggi ad arginare e domani a spegnere la guerriglia ha un costo insopportabile anche per la prima economia del pianeta. Siamo nell´ordine di miliardi di dollari al mese: a quel ritmo di spesa i marines non possono restare anni in Mesopotamia. I governi alleati continuano a ripetere che presto la polizia e il neonato esercito iracheni saranno in grado di sostituire le truppe occidentali; ma finora ogni qualvolta quei poliziotti e quei soldati hanno dovuto cavarsela da soli se la sono squagliata, vuoi per una comprensibile paura di rappresaglie, vuoi per non ammazzare compatrioti, vuoi perché in accordo con la guerriglia o in disaccordo con gli americani. E´ successo da ultimo anche a Mosul. Gli unici reparti sui quali gli americani fanno affidamento sono il 38esimo battaglione e poche altre unità, quasi tutte composte da miliziani curdi, quei peshmerga prestati da partiti tradizionalmente dediti tanto alla guerra quanto al contrabbando dell´eroina afgana, di cui sono i grandi smistatori. A parte questi gentiluomini di ventura, da cui è improbabile nasca uno Stato di diritto, il New Iraqi Army appare formato per gran parte da brava gente poco propensa a rischiare la pelle per un esercito straniero poco amato dalla popolazione. Inoltre un certo scoramento serpeggia nella Coalizione, i cui ranghi potrebbero assottigliarsi velocemente: gli ungheresi stanno per rimpatriare, i polacchi chiedono compiti meno gravosi, gli ucraini sono incerti, i tailandesi vacillano. Così i marines sono sempre più indispensabili per fronteggiare le «forze anti-irachene», come il Pentagono definisce una guerriglia peraltro composta al 95-97% da iracheni (essendo stranieri solo il 3-5% dei prigionieri). Ma quanto più gli americani sono trascinati in scontri urbani inevitabilmente crudeli, tanto più intorno a loro cresce l´ostilità sunnita. Essendo negato alle organizzazioni umanitarie di entrare a Falluja ignoriamo quanti civili siano rimasti uccisi nella battaglia urbana in corso da undici giorni, né forse sapremo mai con certezza se siano gli 800 di cui riferiva una fonte della Croce rossa all´agenzia di stampa Ips. Ma gli iracheni, e gli arabi, hanno visto il filmato in cui un marine fredda un ferito dentro una moschea sospettando sia armato. E´ bastato quell´unico fotogramma per spingere i tanti imam della penisola arabica a dichiarare santa la guerra di liberazione contro un occupante che calpesta la legalità internazionale. Che poi questo clero sunnnita veda solo i misfatti degli americani e mai gli scannatoi della guerriglia, a questo punto è secondario. Ciò che qui importa è che la Coalizione è prigioniera d´un paradosso. Per rendere possibili le elezioni di gennaio anche nell´Iraq centrale, deve riprendersi con le armi le città tiranneggiate dalle bande islamiche e baathiste; ma così rischia di perdere definitivamente la popolazione sunnita, che si considera più aggredita che liberata.

Di tutto questo si troverà appena un eco nel documento che chiuderà la Conferenza. Ma nei colloqui riservati Powell, Straw, forse Fini, diranno ai governanti arabi quanto l´Economist sintetizza in un titolo: «E´ tempo d´aiutare» (la Coalizione). E Frattini, sulla stessa linea: «E´ chiaro che la stabilizzazione della regione è un interesse anche loro (degli arabi)». Ma la realtà è tutt´altra: un Iraq stabile e democratico non conviene ai falchi del regime iraniano né probabilmente all´oligarchia militare siriana. L´interesse loro e di alcuni poteri dell´area, semmai, è che la Coalizione scappi dall´Iraq con le ossa rotte. E se perseguono attivamente questo obiettivo, a distoglierli non saranno certo il monito che la Conferenza rivolgerà nel documento finale a tutti e a nessuno perché s´interrompa il flusso di guerrieri sui confini con l´Iraq. Quanto agli altri regimi arabi e ai Paesi islamici, è chiaro che essi possono aiutare la Coalizione solo nei termini accettabili alle rispettive opinioni pubbliche, condizioni però sgradite all´amministrazione Bush. Pachistani e sauditi hanno offerto truppe, ma a patto che fossero inquadrate come forza multinazionale Onu sotto un comando autonomo, non sotto il comando americano. A sua volta la Lega araba s´è dichiarata disponibile a organizzare una Conferenza di Riconciliazione tra tutte le forze politiche dell´Iraq, incluse quelle dell´opposizione meno impresentabile. Ma Washington non vuole compartecipazioni su cui non avrebbe il controllo e ha respinto entrambe le proposte. Però chiede che i regimi arabi convincano gli iracheni sunniti a partecipare alle elezioni.

Pretese dagli sciiti, le elezioni di gennaio sono diventate uno snodo cruciale anche per ragioni simboliche. Rimandarle di qualche mese sarebbe la decisione più razionale, tanto più perché quasi ovunque mancano gli strumenti tecnici per garantirne la regolarità. Ma decidendo un rinvio Washington ammetterebbe quanto invece intende negare, e cioè che la Coalizione è in difficoltà e non può rispettare il calendario previsto dalla risoluzione Onu 1546 (al paragrafo 4 prevede che «non oltre il 31 gennaio 2005», gli iracheni eleggano un´assemblea costituente destinata a formare il governo e a scrivere la nuova Costituzione entro il dicembre 2005). Dunque l´amministrazione Bush è decisa a tenere le elezioni, quale che sia la loro regolarità, e sta tentando con fatica di costruire le premesse per una vittoria dei partiti amici. Le sei basi americane costruite dopo l´invasione suggeriscono che Washington non contempli neppure la possibilità d´un governo iracheno ostile, o così poco amichevole da stracciare gli accordi militari, sfrattare i B52 e annullare i contratti fin qui sottoscritti da Bagdad. Ma se parte dell´elettorato iracheno si sentisse frodato, com´è possibile, o se i sunniti rifiutassero di votare, com´è probabile, «le conseguenze sarebbero devastanti», prevede un think-tank americano, l´International Crisis Group.

Soprattutto l´astensione sunnita negherebbe all´assemblea costituente sia la rappresentatività necessaria per decidere la nuova Costituzione, sia la legittimità per mediare una soluzione politica con parte della guerriglia. Questo garbuglio si profilava già all´inizio dell´autunno, quando gli europei investivano molto sulla Conferenza. Ma all´epoca era ancora possibile sperare che la vittoria di Kerry nelle presidenziali americane avrebbe permesso una nuova partenza. Con Bush ancora al timone e Powell in disarmo, la politica americana sembra invece destinata a continuare sul binario obbligato dell´ottimismo ideologico e delle formule non più rinnegabili. Questo rischia di ridurre questa Conferenza mondiale su cui anche l´Italia puntava ad un grandioso esercizio di futilità diplomatica.

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