Da The Washington Post del 18/11/2004

Nella città spettrale macerie fumanti, cadaveri e carcasse di cani. Solo qualche vecchio implora cibo dai soldati

Falluja, nelle strade della morte con i marines a caccia di ribelli

Sui muri della moschea di Othman bin Afan c´è scritto "L´islam è ritornato", ma non c´è nessuno a dare il benvenuto
Il generale Hejlik osserva il campo di battaglia e dice "Ecco cosa sappiamo fare, e lo facciamo bene"

di Jackie Spinner

FALLUJA - In questa città che sembra si sia dimenticata che cosa è la vita, persino i cani hanno iniziato a morire. Cadono a terra tra pezzi di lamiere e detriti di cemento. Le saracinesche dei negozi lungo le arterie principali della città sono state trasformate dalla violenza della guerra in porte a soffietto sventrate, in lamiere di metallo squarciate, taglienti, che non proteggono più le pile di vasi argentati, di mobili da ufficio ricoperti di plastica da imballaggio, di tappeti arrotolati, tutta merce che ora sarebbe in saldo, se soltanto ci fosse qualcuno. Ma non ci sono commercianti, non ci sono clienti, non c´è quasi nessuno per le strade di Falluja.

I marines americani che nel quartiere di Jolan, a nord, stanno cercando i ribelli, vedono emergere due uomini anziani da un mucchio di sassi. Gli uomini, che appaiono troppo anziani per poter essere guerriglieri, fanno un gesto, indicando lo stomaco, per far capire che sono affamati. Una volta ricevuti dei sacchetti con le razioni dei marines, scompaiono da dove erano arrivati.

Del fumo nero si leva alto nel cielo da alcuni edifici dall´altra parte della città, presi di mira dall´artiglieria americana che ancora continua a bombardare le postazioni dei ribelli. Sui blocchi di cemento del muro che circonda la moschea di Othman bin Afan, lungo l´autostrada che taglia in due la città, qualcuno ha scribacchiato "L´islam è ritornato", ma non c´è nessuno a dare il benvenuto. E se, come proclama un´altra scritta lasciata nei pressi, i coraggiosi e i pii combattenti vivranno a lungo, così non pare nella deserta piazza dell´Arco della Vittoria, dove l´arco di metallo sovrastato dalla statua di Saddam Hussein mesi fa è andato distrutto da una bomba collocata sul ciglio della strada per colpire un convoglio americano.

Dieci giorni fa le forze statunitensi e irachene hanno valicato più veloci che potevano il muro di fango difensivo eretto intorno alla città. A bordo di tank e veicoli da combattimento Bradley hanno puntato verso il centro e verso le periferie controllate dai ribelli. La maggior parte dei suoi 250 mila abitanti era già fuggita in previsione dell´attacco. I comandanti americani assicurano di avere il controllo di Falluja ad esclusione di alcune sacche di resistenza situate a sud.

Tolto ciò, ormai Falluja appare essenzialmente tranquilla. «La situazione si sta calmando», dice il caporale Joshua William di Sherman, New York, un ventunenne che ripulisce il suo M-16 su un lettino da campo installato in un magazzino occupato dai marines.

Negli scontri appena conclusi l´artiglieria ha giocato un ruolo determinante, e l´autostrada che attraversa la città ne riporta gli inequivocabili segni. Per ridurre i rischi per le truppe appiedate, le batterie dell´artiglieria hanno pesantemente colpito i sospetti covi dei ribelli prima che la fanteria entrasse in città, e altrettanto pesanti erano stati i bombardamenti aerei e i colpi di mortaio. Interi quartieri sono stati devastati e crivellati di colpi. A pochi isolati da piazza dell´Arco della Vittoria, il corpo bruciato di un uomo barbuto, con indosso una classica tunica tribale nera, giace in mezzo alla strada, con le braccia spalancate.

Mentre il generale di brigata Tennis J. Hejlik, vice-comandante della prima Forza di spedizione dei marines, stava ispezionando un quartiere ad ovest, vicino alla rampa di accesso a un ponte che attraversa il fiume Eufrate è iniziato uno scontro a fuoco tra i marines che ispezionavano le case e un gruppo di ribelli nascosti in una stradina laterale. Il rumore della sparatoria è andato intensificandosi e il generale si è diretto verso gli spari e i colpi di mortaio. La sua scorta lo ha seguito con le armi in pugno. Il generale Hejlik è rimasto a osservare la scena per un po´, quindi ha fatto ritorno al suo mezzo corazzato. Quando gli è stato chiesto come stava andando la battaglia, il generale ha fatto un gesto in direzione delle strade deserte e ha detto: «Ecco che cosa sappiamo fare, e lo facciamo bene».
Annotazioni − Articolo pubblicato il 18/11/2004 su "la Repubblica".
Traduzione di Anna Bissanti.

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