Da Corriere della Sera del 17/11/2004

Moratti: niente tagli sulla scuola Quella manovra non è accettabile

«Troppa burocrazia e assemblee negli istituti, dobbiamo ripensare i decreti delegati»

di Paolo Conti

ROMA - Ministro Letizia Moratti, mentre parliamo al telefono lei è a Tokio per siglare accordi bilaterali col Giappone sulla ricerca scientifica. Ma qui la scuola italiana è in subbuglio. C’è in vista un taglio del 2% delle risorse nella Finanziaria. Professori e studenti sono scesi in piazza... «Quei tagli non sono accettabili. Non sono coerenti con la politica adottata dal governo: cioè completare la riforma della scuola, investire nell’università, rafforzare la ricerca, puntare sul capitale umano».

Lei dice: non sono accettabili. E il ministro dell’Economia?
«Il ministro Siniscalco mi ha promesso che avrebbe risolto il problema prima del mio rientro di domani mattina, mercoledì (oggi per chi legge, ndr) , a Roma dal mio viaggio di lavoro».

«Risolvere» cosa significa per lei, ministro?
«Non avere tagli sulla scuola o blocchi delle assunzioni nelle università. Poter invece disporre delle risorse necessarie per completare il nostro lavoro di riforma».

Con quei tagli svanirebbero 14.000 cattedre per insegnanti, secondo i conti dei sindacati...
«Non faccio, nel modo più assoluto, calcoli virtuali su tagli che, ripeto, per me sono inaccettabili».

Nei cortei, tra i tanti slogan, si è sentito questo: in tre anni è sparito un miliardo di euro dalla scuola.
«Si può discutere sulla qualità dei provvedimenti ma non è possibile contrabbandare dati falsi. Il bilancio dell’istruzione, senza università e ricerca, è cresciuto di 4 miliardi e mezzo di euro negli ultimi tre anni. Oltre a questi abbiamo avuto altri stanziamenti: 90 milioni di euro nella Finanziaria 2004 a sostegno della riforma. Altri 110 milioni sono previsti nella Finanziaria 2005».

Lei promette che i tagli non ci saranno. E gli organici?
«Verranno mantenuti quelli già concordati con i sindacati. In più ci saranno gli organici di fatto, quelli che si creano per necessità contingenti: malattia, distacchi, maternità».

I sindacati però ricordano come il biennio economico 2004-2005 del contratto quadriennale sia scaduto da undici mesi.
«Abbiamo già a disposizione per gli insegnanti e il personale tecnico-amministrativo 413 milioni di euro in più, ottenuti grazie alle razionalizzazioni concordate col sindacato. Sono già certificati dal ministero dell’Economia. Stiamo aspettando il contratto complessivo dal ministero della Funzione pubblica, al quale però abbiamo chiesto di poter cominciare a distribuire ciò che è nella nostra disponibilità».

Gli insegnanti lamentano un calo del potere di acquisto del loro stipendio: 1.350 euro netti mensili dopo 15 anni.
«Non sono cifre attuali. Ormai siamo prossimi alle medie europee, visto che un insegnante di scuola superiore arriva ai 1.450. Nel biennio 2002-2003 l’aumento medio è stato di 147 euro lordi. Considerando però che il numero di ore lavorato in Italia è inferiore alle stesse medie di cui parlavamo».

In realtà i professori italiani si sentono trascinati sempre più verso i gradini inferiori della scala sociale.
«Nel più recente confronto europeo sulla qualità dell’insegnamento abbiamo notato come questa sensazione attraversi l’intera categoria nell’Unione. C’è forse paura di non essere più considerati come un tempo. Forse perché sono state perdute via via molte caratteristiche professionali a favore, purtroppo, di funzioni impiegatizie. L’approccio professionale va recuperato. Ma questo dipende molto anche dagli stessi insegnanti».

Ma sono proprio gli stessi insegnanti a lamentarsi di un eccesso di burocrazia nella scuola. Tra i tanti esempi fanno quello del portfolio delle competenze nel primo anno di scuola elementare: a che servono, si chiedono, tante compilazioni?
«Distinguiamo bene. Il portfolio delle competenze è una funzione molto precisa del docente, assai importante per la costruzione di un giusto itinerario per lo studente in collaborazione con la famiglia. Io mi riferisco ad appesantimenti burocratici e amministrativi che allontanano il docente dalla sua funzione essenziale: insegnare, stabilire un autentico contatto con i ragazzi e i loro genitori. I veri appesantimenti sono, per esempio, nelle assemblee degli organi collegiali, di istituto...».

Pensa sia arrivato il momento di ripensare i famosi decreti delegati che risalgono ai primi anni Settanta?
«Personalmente penso di sì. La gestione degli organi collegiali di istituto e di quelli territoriali ha oggettivamente aggravato il lavoro dei docenti, attribuendo loro funzioni che hanno poco o nulla a che vedere col più autentico compito educativo».

Quei decreti erano visti come uno strumento di democrazia partecipativa.
«A mio avviso la vera democrazia partecipativa è la responsabilità di ciò che ciascuno fa nel concreto».

Giuseppe De Rita accusa: nella scuola italiana si è smesso di insegnare davvero e di studiare davvero, cioè di fornire le basi più banali, ovvie. Può davvero venir meno la struttura formativa di base garantita dalla scuola italiana?
«E’ già, nei fatti, venuta meno. Per questo abbiamo avviato la riforma della scuola e dell’università. I livelli di apprendimento si sono via via abbassati soprattutto per quanto riguarda le conoscenze fondamentali: italiano, matematica e scienza. E’ il senso dei nostri interventi. Non abbiamo certo lavorato solo per il gusto di cambiare. Nell’università ho per esempio mantenuto la riforma Berlinguer, anche se con qualche correttivo. Ma nella scuola era indispensabile agire. Mancava un sistema di valutazione centrale, trasparente, per poter monitorare la qualità dell’offerta formativa e dei livelli di apprendimento dei ragazzi. I migliori sistemi scolastici, si sa, sono quelli che si dotano appunto di un buon sistema di valutazione. Dopo tre anni di sperimentazione ora siamo alla legge. Ora dobbiamo accompagnare il processo di crescita qualitativa: colmando lacune, valorizzando talenti, recuperando solide basi nei saperi principali. Ma è importante il filone degli investimenti nei capitali umani. Come abbiamo fatto in Giappone in queste ore».

Di cosa si tratta, ministro?
«Di qualcosa che ha molto a che fare con la filiera della conoscenza, con un approccio strategico per il futuro. Abbiamo firmato tre accordi bilaterali, tra cui uno col ministero giapponese dell’Educazione che prevede la creazione di un centro comune di ricerca tra Giappone e Italia in materia di nanotecnologie e di robotica. Saranno coinvolte diverse università di Tokio e di Kyoto e, per l’Italia, le università di Genova, Ferrara, Milano, Modena, la Normale di Pisa, il Cnr, l’European Brain Research Institute di Roma. Significa combinare le eccellenze dei due Paesi in settori avanzatissimi. Solo il settore della robotica umanoide, in Giappone, assorbirà entro 30 anni il 70% del settore auto e riguarderà 20 milioni di anziani nel settore dell’assistenza».

Tornando ai cortei, lei sembrerebbe molto impopolare, stando agli slogan che le vengono «dedicati». Non le pesa tutto questo umanamente?
«C’è una minoranza che riesce a farsi sentire molto. Ma ricevo una valanga di attestati di simpatia e incoraggiamento a proseguire, ad andare avanti. Quindi, no, non mi pesa».

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