Da Corriere della Sera del 13/11/2004

Usa divisi da un’azienda

Wal-Mart Il liberismo sugli scaffali

di Massimo Gaggi

NEW YORK - La vittoria elettorale di Bush è anche la vittoria di Wal-Mart, la più grande azienda americana: un milione e 400 mila dipendenti e quasi 300 miliardi di dollari di fatturato, il 2,3 per cento del reddito nazionale Usa; una rete distributiva fatta di 5.000 ipermercati sparsi per il mondo, dalla Cina alla Germania, mentre negli Stati Uniti - dove ogni settimana cento milioni di consumatori entrano nei suoi negozi - è leader nella vendita di quasi tutto, dai detersivi ai diamanti, passando per i giocattoli. Tutto insieme, tutto a prezzi scontatissimi, grazie a un'organizzazione efficiente e a un costo del lavoro molto basso. Tempio del liberismo e campo di battaglia preferito di chi vorrebbe un capitalismo meno brutale, Wal-Mart è ben più di un'impresa che fa e chiede favori al governo: è un essenziale braccio economico della politica sociale di Bush.

Lo spiegano anche gli economisti «liberal» della Brookings Institution: Wal-Mart è stato uno dei motori del «boom» degli Anni '90 perché con la sua straordinaria efficienza ha favorito grossi recuperi di competitività dell'intero sistema americano; e poi, abbassando continuamente i prezzi - inferiori mediamente del 14 per cento rispetto alla concorrenza - ha tenuto l'inflazione rasoterra e ha difeso il potere d'acquisto dei ceti meno abbienti. Ma ha anche schiacciato verso il basso i redditi del personale e ha tritato i suoi rivali: dove arriva Wal-Mart gli altri supermercati chiudono o sono costretti a inseguire l'azienda leader nella sua politica di retribuzioni all'osso (10 dollari l'ora in media, ma gli stagionali ne guadagnano 8). I salari sono mediamente più bassi del 30% rispetto alle altre catene maggiori e i lavoratori che ricevono anche la copertura sanitaria sono una minoranza.

«È un cane che si morde la coda» spiega deluso Floyd McKay, docente della Western Washington University. «I ceti medi e medio- bassi fanno la spesa in questi giganti, pur sapendo che in tal modo contribuiscono alla desertificazione del tessuto commerciale circostante, perché grazie ai listini scontatissimi riescono magari a non scivolare oltre la soglia della povertà. Così, però, rafforzano Wal-Mart e la sua politica di bassi salari che alimenta il fenomeno dei "working poors": gente che rimane nella fascia del bisogno pur lavorando a tempo pieno ed è costretta a rivolgersi all'assistenza pubblica per necessità elementari come le cure mediche dei figli».

Wal-Mart deve fronteggiare migliaia di cause di lavoro intentate da addetti che accusano l'azienda di aver violato i loro diritti. E ora un giudice ha ritenuto che ci siano motivi fondati dietro le accuse all’azienda di discriminare le donne: ne deriverà un procedimento giudiziario che potrebbe riguardare fino a un milione e mezzo di suoi dipendenti e ex dipendenti di sesso femminile.

La famiglia Walton, gli eredi di Sam, l'imprenditore che fondò la società 42 anni fa partendo da un negozio di Bentonville, Arkansas, non sembra troppo allarmata. Probabilmente conta su Bush, che ha messo in cima all'agenda del suo secondo mandato una legislazione destinata a limitare le cause collettive e le «class action«, che in America hanno effettivamente una diffusione impressionante, alimentate da migliaia di studi legali che vivono di questo.

I Walton si godono poi il loro trionfo californiano: lo Stato ha votato per Kerry, ma - grazie all'appoggio del governatore (repubblicano) Arnold Schwarzenegger e a una campagna finanziata con 600 mila dollari dalla stessa Wal-Mart - ha respinto la «Proposition 72», un referendum mirante a imporre alle imprese maggiori di offrire un’assicurazione sanitaria ai loro dipendenti, coprendo almeno l'80 per cento del suo costo. Una vittoria dell'ideologia «bushiana»: la California democratica che vota contro l'assistenza sanitaria garantita perché convinta che ciò sarebbe di intralcio all'attività delle imprese, frenando la crescita economica e, quindi, l'occupazione.

Famiglia più ricca d'America, con un patrimonio di 80 miliardi di dollari, i Walton - Helen, la vedova di Sam, scomparso nel '92 e i figli Rob, John, Alice e Jim - guidano l'azienda con grande compattezza, caso raro negli annali del capitalismo familiare. Lee Scott, il manager scelto per amministrare il gruppo, applica strettamente la filosofia del fondatore: merci a buon mercato per tutti tenendo i costi all'osso. Traduzione: niente sindacati tra i piedi, assistenza sanitaria riservata ai dipendenti più anziani, forte ricorso a stagionali, spesso reclutati tra studenti e pensionati che non cercano un lavoro permanente, possono accettare retribuzioni più basse e in genere hanno già la copertura medica del papà oppure Medicare, la sanità pubblica per gli anziani.

Il successo non è però fatto solo di risparmi sul personale: la logistica è eccezionale, i prodotti rimangono sugli scaffali solo poche ore e gli acquisti sono concentrati sui fornitori che offrono prezzi stracciati: Wal-Mart compra in Cina merci per 15 miliardi di dollari l'anno. Un successo che si misura coi profitti ma soprattutto con la crescita: 500 nuovi ipermercati nel mondo quest'anno, altrettanti l'anno prossimo. In America Wal- Mart apre un centro ogni 30 ore.

Sabato sera a Valley Stream, agglomerato suburbano di Long Island: il parcheggio è zeppo di auto di piccola cilindrata, l'ultima corsia è riservata agli autotreni bianchi che entrano ed escono dal gigantesco capannone. Dentro sciamano famiglie intere, soprattutto neri e latinos di Queens, quartiere di New York non lontano da qui. Dal carrello di Susan spunta la ruota di una bici: «È un posto caotico, non è allegro, ma qui trovo tutto: cibo, vestiti, la stufa; mio marito laggiù sta scegliendo le vernici per la casa e dei pezzi di legno per alcune riparazioni. Tutto costa meno, tutto è qui, senza fare tanti giri: così rimangono anche i 35 dollari per la bicicletta del mio bambino».

«Quello che va bene per la General Motors va bene per l'America» si diceva quando - dagli Anni '50 fino al «boom» del Giappone, il costruttore di Detroit, primo gruppo industriale del mondo, inondava l'America di Chevrolet, Buick e Cadillac. Quando lo stesso slogan, applicato a Wal-Mart, circola oggi nell'Amministrazione americana, sono in molti a storcere il naso. Intanto perché GM era l'indiscusso campione del Made in Usa, mentre la bicicletta di Susan è cinese come il termosifone elettrico (35 dollari anche quello).

Niente di male, è il libero mercato che crea benessere tenendo bassi i prezzi e stimolando l'efficienza. Ma le comunità locali cominciano a dividersi (si moltiplicano i siti di denuncia e i referendum contro l'apertura di nuovi centri) perché tutti vogliono spendere poco, ma molti guardano con preoccupazione alle conseguenze sociali dell'arrivo dei megastore: non solo l'abbassamento delle retribuzioni medie negli esercizi commerciali della zona, ma anche la scomparsa di mille piccoli negozi che finisce per desertificare anche le cittadine dell’America rurale.

E il dilemma comincia a toccare anche gli amministratori di municipi e contee: fin qui si sono contesi gli ipermercati perché le imposte sui consumi, che si pagano su ogni acquisto, vengono incassate dagli enti locali. Ma la trasformazione del paesaggio e del tessuto sociale è divenuta una sfida anche per loro. I capannoni abbandonati dai concorrenti e dalla stessa Wal-Mart, che cerca di aprire esercizi di dimensioni sempre maggiori, sono ormai cimiteri commerciali che si aggiungono a quelli delle industrie smantellate.

Quanto all'assistenza pubblica, mancano dati nazionali ma non numeri illuminanti: lo Stato della California spende 32 milioni di dollari l'anno per la sanità dei dipendenti di Wal-Mart non assicurati, mentre gli ospedali del North Carolina hanno scoperto che il 31 per cento dei 1.900 pazienti che si sono dichiarati dipendenti del gruppo è coperto da Medicaid, l'assistenza federale riservata ai poveri.

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