Da Corriere della Sera del 04/11/2004

Realtà e desideri

L’America che non c’è della sinistra italiana

di Gian Antonio Stella

Ai giornali romani che spararono la morte (falsa) di Pio XII, per colpa di un'intesa con un informatore segreto e d'una finestra chiusa per errore, andò bene: il Papa spirò poche ore dopo e la «bufala» sembrò un'anticipazione. E all'amico John Reed, reo d'aver scritto della caduta d'una ciudad mexicana mai avvenuta, Pancho Villa fece il piacere di conquistare la città in questione per confermare la notizia. Il manifesto non ha avuto ieri altrettanta fortuna. E così il titolone, con foto di John Kerry festante, resterà immortale: «Good morning America». Sommario: «Con una valanga di voti gli americani cacciano Bush dalla Casa Bianca. Venti milioni di elettori in più rispetto al 2000 portano Kerry alla presidenza. Nella notte gli exit poll decretano la sconfitta dell'uomo della guerra preventiva: 311 voti elettorali a Kerry, solo 213 a Bush».

Per carità: capita. Ma dietro il catastrofico infortunio di ieri del giornale che fu di Luigi Pintor, infortunio che ricorda il titolone col quale il 3 novembre del 1948 uscì il Chicago Daily Tribune («Dewey batte Truman»: era il contrario) non c'è solo una sciagurata approssimazione giornalistica. C'è lo sfogo liberatorio di una illusione a lungo coltivata dalla nostra sinistra: che non solo esistesse ma fosse maggioritaria una immaginaria «America migliore».

Un'America pacifista, schierata contro Bush, in coda per vedere Fahrenheit 9/11 di Michael Moore, decisa a recuperare dopo decenni di appannamento i cari ideali di George McGovern, arrabbiata per i suoi caduti come quando trionfava il film Nato il 4 luglio dove il marine paralizzato Tom Cruise diventa un accanito nemico della guerra, movimentista come nei giorni di tripudio del «popolo di Seattle» e insomma un'America diversa da quella dei McDonald’s e magari un po' rossa o almeno arcobaleno. Un equivoco. Non nuovo a sinistra dove, spiega Mauro della Porta Raffo ne I signori della Casa Bianca , si sono bollati sempre come guerrafondai i repubblicani «pur essendo state tutte le guerre del Novecento, tutte tranne la prima nel Golfo, decise da presidenti democratici comprese quelle di Corea e del Vietnam».

E' dura, a sinistra, prendere atto di «questa» America uscita dal voto. Basta rileggere cosa ha detto nei giorni e nelle settimane scorse chi ha fatto apertamente il tifo per Kerry. Fausto Bertinotti: «Nella passata tornata elettorale che vedeva contrapposti Al Gore e Bush, avrei votato per Nader. Oggi voterei per Kerry, perché ho fiducia che il grande movimento pacifista in atto in Usa e in tutto il mondo possa sospingerlo o costringerlo a posizioni più avanzate di quelle espresse finora».

Pietro Fassino: «Nell'incontrare la famiglia Kennedy a Cape Cod, ho trovato da parte loro una grande determinazione nel sostenere Kerry, per dare al mondo un'altra America, l'America che il mondo vuole».

Francesco Rutelli: "E' vero: gli americani voterebbero per chiunque non sia Bush. Ma è importante che i democratici si stiano sforzando di apparire più propositivi che antagonisti». Walter Veltroni: «Kerry è un uomo onesto, un politico preparato. Lui e John Edwards vengono da questa tradizione, dalla cultura dell'America democratica e liberal, dell'America migliore, che ancora oggi, soprattutto oggi, può rappresentare un punto di riferimento, può essere simbolo della speranza contro la paura, dell'unità contro la divisione, del coinvolgimento contro l'esclusione, della cooperazione internazionale, unico modo per sconfiggere davvero il terrorismo».

Per non parlare dei giornali. Dell' american dream dell' Unità visto con gli occhi di Ariel Dorfman: «Dovunque mi sono recato negli Stati Uniti ho visto segnali di uno stupefacente spirito di resistenza, ho visto l'America migliore che si mobilitava, cittadini non spinti dal terrore ma dalla speranza, un'ondata enorme, pluralistica e creativa di attivismo». Delle interviste del «manifesto» a Ed Garvey, dove l'avvocato delle cause ambientali e dei diritti civili confidava un po' snob di non avere «mai fatto campagna per un candidato che ha vinto» e spiegava di votare Kerry perché a differenza di Clinton (che «era di centrodestra») sarebbe stato «il presidente più liberal da 40 anni a questa parte».

Della visione di quest'altra America sognata su Liberazione con le parole di Esther Kaplan, del settimanale di sinistra The Nation : «La risposta all'estremismo dell'amministrazione Bush è stata forte. Le numerose manifestazioni contro la guerra che si sono svolte nel Paese sono state rilevanti. Alla convention repubblicana di agosto la partecipazione è stata magnifica: dai sindacati alle chiese, alla gente comune. Resta da chiedersi se in caso di vittoria di Bush questa gente continuerà a mobilitarsi o si sentirà sconfitta e si ritirerà».

Lì sta il punto: la sconfitta di Kerry e di quella vagheggiata «America migliore» che avrebbe dovuto buttar fuori Bush dalla Casa Bianca, pone ora alla sinistra italiana una serie di problemi. Di analisi profonda del voto Usa, ma anche di prospettive nostrane. Col rischio che la via d'uscita, ancora una volta, sia sempre quella antica, scontata, rassicurante, assurda di una volta: l'anti-americanismo nudo e crudo. Quello che già prima di questa ondata repubblicana faceva scrivere pochi giorni fa a John Andrew Manisco sul manifesto : «Ormai le notizie sulla frode elettorale perpetrata dai repubblicani in tutti gli Stati in bilico che decideranno chi sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti assomigliano sempre più a un bollettino di guerra....». Poteva mai vincere Kerry, nell'Impero del Male?

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