Da Corriere della Sera del 05/11/2004
Elie Wiesel
«È stato il maggiore ostacolo alla pace, non merita elogi»
Il premio Nobel: «Anche Rabin me lo disse: pensavo che Yasser fosse la soluzione, ora so che è lui il problema»
di Alessandra Farkas
NEW YORK - «Con l'uscita di scena di Yasser Arafat è stato rimosso il più grave ostacolo alla pace tra Israele e palestinesi. La sua scomparsa segna l'inizio di una nuova era di speranza in Medio Oriente: speriamo che le parti sappiano metterla a frutto». Elie Wiesel, scrittore, premio Nobel per la Pace e massimo portavoce degli ebrei della Diaspora, invita la comunità internazionale a non cedere alla facile tentazione di «commemorare tra lacrime ed elogi un individuo che merita di essere ricordato in ben altro modo».
«Non sono d'accordo con chi adesso vorrebbe riscrivere la storia, invitandoci a ricordare le presunte "buone azioni" da lui commesse - spiega al Corriere Wiesel -, e dimenticando le ombre. La sua eredità è universalmente negativa. Da quando Arafat ha assunto la leadership dell'Olp, dopo Ahmed Shukayri, nel ’64, quell'organizzazione è progressivamente regredita. Per citare il grande Abba Ebban: "Non ha mai perso un'occasione per perdere un'occasione"».
La morte di Arafat può dunque riaprire la strada del dialogo?
«Israeliani e palestinesi lo sperano, perché anche loro sono convinti che fosse lui l'intralcio più serio alla pace. Arafat aveva i mezzi e le informazioni per fermare il terrore di Hamas, della Jihad islamica e delle Brigate Al Aqsa, ma ha scelto di non farlo. Mentre li condannava verbalmente, sottobanco dava loro luce verde per continuare le stragi. Che portano tutte il suo marchio».
Ritiene che sia necessario anche un cambio ai vertici in Israele per tornare seriamente alla «road map»?
«Niente affatto, Ariel Sharon, oggi, si è spostato verso posizioni di centro-sinistra identiche a quelle del Labour Party. Ha dimostrato un enorme coraggio nell'evacuazione di Gaza: un'idea peraltro tutta sua. Il premier israeliano ha dimostrato di essere un uomo che vuole sinceramente arrivare alla pace».
Chi potrebbero essere i suoi nuovi interlocutori ai vertici dell'Autorità nazionale palestinese?
«La rosa dei candidati include almeno due dozzine di giovani, ansiosi di sedersi attorno a un tavolo con Israele per discutere la loro visione moderata, e fino a oggi repressa, dell’uscita da questa crisi. Giovani e non solo. A partire da leader come Abu Mazen e Abu Ala, che fino a oggi non hanno potuto lavorare perché Arafat non glielo ha consentito».
Il presidente George W. Bush ha detto che continuerà a lavorare per uno Stato palestinese libero, in pace con Israele.
«E' un sogno condiviso da tutti i leader israeliani, da Barak a Peres, al premier Sharon. Oggi nessuno mette in dubbio la validità di questo nobile obiettivo, inclusa l'estrema destra. Le divergenze semmai riguardano i confini».
Qual è stato, guardando indietro, il più grave errore commesso da Arafat?
«L’aver sposato la violenza estrema e il terrore sia come fine che come mezzo: come religione di vita e strategia politica. Eppure la storia gli aveva offerto molte occasioni per effettuare una svolta in chiave moderata. Lui le ha rifiutate tutte, e a farne le spese è stato il suo popolo, Israele e l'intero Medio Oriente».
Che cosa pensa del Premio Nobel per la pace assegnatogli?
«Che non lo meritava nel modo più assoluto. Se avessi avuto l'opportunità, avrei guidato io, di persona, una campagna internazionale perché non gli fosse assegnato. Purtroppo lo statuto del Nobel dichiara che il premio non si può né restituire, né annullare e le tante proteste per revocare quel Nobel macchiato di sangue sono state inutili. Alla fine anche Yitzhak Rabin si è reso conto di chi era Arafat».
Ne avete discusso insieme?
«L'ultima volta che l'ho incontrato, durante una cena di Shabbat a New York, due settimane prima d'essere assassinato, Rabin mi ha preso da parte e mi ha detto, con un'aria molto seria e amareggiata: "All'inizio ero convinto che Arafat fosse la soluzione, adesso so che è lui il problema". E' strano che il leader palestinese sia morto proprio nel nono anniversario dell'uccisione di Rabin».
Chi era l'uomo Yasser Arafat?
«Non ho mai voluto incontrarlo. Ma tantissimi palestinesi, giovani e vecchi, mi ripetono tutti da anni, anche se ovviamente solo a quattr’occhi, la stessa musica. E cioè che Arafat è stato un leader profondamente corrotto, accentratore e dittatoriale, che ha accumulato milioni di dollari all’estero mentre il suo popolo moriva di fame».
Pensa che la sua morte in Israele sarà motivo di celebrazioni?
«La tradizione ebraica non prevede mai di celebrare la morte di un nemico. Ma la luce all'orizzonte dello Stato ebraico oggi è sicuramente meno fosca».
Che cosa diranno di Arafat i libri di storia?
«Lo ricorderanno come l'uomo che, fino alla morte, si è battuto per la distruzione dello Stato d'Israele. Che ha odiato di un odio profondo e incondizionato. Fino all'ultimo respiro».
«Non sono d'accordo con chi adesso vorrebbe riscrivere la storia, invitandoci a ricordare le presunte "buone azioni" da lui commesse - spiega al Corriere Wiesel -, e dimenticando le ombre. La sua eredità è universalmente negativa. Da quando Arafat ha assunto la leadership dell'Olp, dopo Ahmed Shukayri, nel ’64, quell'organizzazione è progressivamente regredita. Per citare il grande Abba Ebban: "Non ha mai perso un'occasione per perdere un'occasione"».
La morte di Arafat può dunque riaprire la strada del dialogo?
«Israeliani e palestinesi lo sperano, perché anche loro sono convinti che fosse lui l'intralcio più serio alla pace. Arafat aveva i mezzi e le informazioni per fermare il terrore di Hamas, della Jihad islamica e delle Brigate Al Aqsa, ma ha scelto di non farlo. Mentre li condannava verbalmente, sottobanco dava loro luce verde per continuare le stragi. Che portano tutte il suo marchio».
Ritiene che sia necessario anche un cambio ai vertici in Israele per tornare seriamente alla «road map»?
«Niente affatto, Ariel Sharon, oggi, si è spostato verso posizioni di centro-sinistra identiche a quelle del Labour Party. Ha dimostrato un enorme coraggio nell'evacuazione di Gaza: un'idea peraltro tutta sua. Il premier israeliano ha dimostrato di essere un uomo che vuole sinceramente arrivare alla pace».
Chi potrebbero essere i suoi nuovi interlocutori ai vertici dell'Autorità nazionale palestinese?
«La rosa dei candidati include almeno due dozzine di giovani, ansiosi di sedersi attorno a un tavolo con Israele per discutere la loro visione moderata, e fino a oggi repressa, dell’uscita da questa crisi. Giovani e non solo. A partire da leader come Abu Mazen e Abu Ala, che fino a oggi non hanno potuto lavorare perché Arafat non glielo ha consentito».
Il presidente George W. Bush ha detto che continuerà a lavorare per uno Stato palestinese libero, in pace con Israele.
«E' un sogno condiviso da tutti i leader israeliani, da Barak a Peres, al premier Sharon. Oggi nessuno mette in dubbio la validità di questo nobile obiettivo, inclusa l'estrema destra. Le divergenze semmai riguardano i confini».
Qual è stato, guardando indietro, il più grave errore commesso da Arafat?
«L’aver sposato la violenza estrema e il terrore sia come fine che come mezzo: come religione di vita e strategia politica. Eppure la storia gli aveva offerto molte occasioni per effettuare una svolta in chiave moderata. Lui le ha rifiutate tutte, e a farne le spese è stato il suo popolo, Israele e l'intero Medio Oriente».
Che cosa pensa del Premio Nobel per la pace assegnatogli?
«Che non lo meritava nel modo più assoluto. Se avessi avuto l'opportunità, avrei guidato io, di persona, una campagna internazionale perché non gli fosse assegnato. Purtroppo lo statuto del Nobel dichiara che il premio non si può né restituire, né annullare e le tante proteste per revocare quel Nobel macchiato di sangue sono state inutili. Alla fine anche Yitzhak Rabin si è reso conto di chi era Arafat».
Ne avete discusso insieme?
«L'ultima volta che l'ho incontrato, durante una cena di Shabbat a New York, due settimane prima d'essere assassinato, Rabin mi ha preso da parte e mi ha detto, con un'aria molto seria e amareggiata: "All'inizio ero convinto che Arafat fosse la soluzione, adesso so che è lui il problema". E' strano che il leader palestinese sia morto proprio nel nono anniversario dell'uccisione di Rabin».
Chi era l'uomo Yasser Arafat?
«Non ho mai voluto incontrarlo. Ma tantissimi palestinesi, giovani e vecchi, mi ripetono tutti da anni, anche se ovviamente solo a quattr’occhi, la stessa musica. E cioè che Arafat è stato un leader profondamente corrotto, accentratore e dittatoriale, che ha accumulato milioni di dollari all’estero mentre il suo popolo moriva di fame».
Pensa che la sua morte in Israele sarà motivo di celebrazioni?
«La tradizione ebraica non prevede mai di celebrare la morte di un nemico. Ma la luce all'orizzonte dello Stato ebraico oggi è sicuramente meno fosca».
Che cosa diranno di Arafat i libri di storia?
«Lo ricorderanno come l'uomo che, fino alla morte, si è battuto per la distruzione dello Stato d'Israele. Che ha odiato di un odio profondo e incondizionato. Fino all'ultimo respiro».
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