Da La Repubblica del 03/10/2004

Bush, alibi degli europei

di Barbara Spinelli

IN apparenza gli Europei si dividono secondo schemi razionali, sulle elezioni americane. C'è chi parteggia in cuor suo per Bush, perché lo ritiene deciso e caparbio alla maniera giusta nella lotta antiterroristica. C'è chi preferirebbe Kerry, perché quest'ultimo è contrario alla guerra in Iraq e più attento alle esigenze degli alleati, promettendo loro meno unilateralismo e più consultazioni solidali, dette anche multilaterali. Le sinistre appoggiano il candidato democratico, ma non sono sole perché anche Chirac preferirebbe Kerry. Le destre prediligono Bush: si sentono rassicurate dalla sua determinazione, giudicano tattici i suoi errori. Infine le popolazioni: se potessero esprimere un giudizio collettivo, i popoli europei voterebbero Kerry, perché in maggioranza sono stati ostili alla spedizione in Iraq.

Ma il dibattito televisivo fra i due candidati, che in Europa abbiamo visto nella notte tra giovedì e venerdì, ingarbuglia molti schemi classici e ci costringe tutti a ripensare quel che accade in America, quel che succede nel Vecchio Continente, quel che i nostri governanti stanno facendo dell'Unione che pretendono di edificare. Non è detto infatti che la prima impressione sia quella appropriata: che Bush sia l'avversario più temibile e ostico dei singoli Stati europei, e che Kerry sia invece, di questi Stati, l'amico più intimo e accomodante. Quel che i candidati hanno detto in televisione indica piuttosto il contrario: le vere difficoltà per i politici europei verrebbero da una vittoria di Kerry, non di Bush. Chi in fondo mostra di accomodarsi con l'Europa impotente voluta dai nostri stessi governi è l'attuale Presidente, non il suo rivale.

Basta cercare la parola Europa, nel dibattito Tv. Kerry la pronuncia una volta, ricordando che essa dovrà concorrere più attivamente alla normalizzazione irachena, qualora i democratici vincessero: «Anche gli Europei hanno un interesse nella riuscita dell'operazione, se vogliono evitare che ci sia totale disordine alle loro porte di casa». Bush neanche conosce il soggetto Europa, o l'aggettivo europeo. Elogia la lealtà inglese, parla della partecipazione polacca, accusa Kerry di «denigrare» gli sparsi fiancheggiatori degli Usa. Dei due contendenti, chi lusinga di più l'Europa così com'è - composta di Stati che non sono più affatto sovrani ma che presuntuosamente si fingono tali - non è John Kerry ma George W. Bush.

Questa la realtà, che gli schemi classici destra-sinistra non vedono. Gli anni di Bush sono stati una manna, per tutti coloro che hanno voluto e vogliono tenere in piedi la finzione di Stati-nazione ancor oggi potenti ed efficaci, in Europa. Per questi ultimi sono stati anni comodi, e soprattutto non costosi: non solo per chi ha scelto di assecondare acriticamente Washington, ma anche per chi aspirava all'indipendenza e all'azione di contrasto, come Parigi e Berlino. Nel mondo posticcio e ideologico di Bush gli Europei possono rinviare il passaggio a un'unione politica, e ciascuno può accampare la propria immaginaria indipendenza scongiurando quel che teme di più: la fatica di pensare, d'agire. L'amministrazione Bush, come un albergo, dispone di tutti i comfort che allettano i neghittosi responsabili europei. Permette di fantasticare un'indipendenza nazionale florida, capace di ottenere gli effetti voluti a parole.

Permette di non pagare prezzi impopolari oltre che esosi, e di vivacchiare come ognuno ha sinora vivacchiato: senza traguardi di dimensione europea. Il ministro Buttiglione è stato esplicito, nel «Corriere della Sera» del 20-3-2003: «I nostri elettori non sono disposti a pagare le spese di un apparato militare che ci offra possibilità di intervento paragonabili a quelle degli Usa. Non credo che si tratti semplicemente di miopia, ma di una corretta percezione del fatto che l'apparato militare americano in parte protegge anche noi».

Quel che Kerry rimprovera a Bush - far castelli in aria, ignorare le realtà sul terreno, pensare che sia sufficiente avere indubitabili «certezze, per produrre politiche giuste» - vale anche per chi, nell'Unione, punta in segreto su Bush nella speranza di preservare l'illusorio potere sovrano che dice d'esercitare. Anche questi europei ignorano come stanno le cose nel mondo, dimenticano che da soli non contano più nulla, e hanno certezze inflessibili (filoamericane o antiamericane, poco importa) ma vacue. Bush è stato per loro una facilità, anche se pochi l'ammetterebbero. Parigi ha potuto far finta d'esser la potenza che non è più. Roma e Varsavia pure. La Germania è strana: da due-tre anni s'occupa solo di affari molto casalinghi, e si allena in singolari forme di nazionalismo gollista battagliando per un seggio permanente al Consiglio di sicurezza Onu. È come se ricordasse ogni cosa, delle guerre del '900, tranne il declino cui queste guerre hanno condannato l'Europa degli Stati-nazione. Bush è stato il grande alibi della nostra mediocrità, e promette di esserlo negli anni a venire.

Non così Kerry, che nominando la parola Europa si mostra infinitamente più esigente nei suoi confronti. Anche da questo punto di vista il dibattito è stato chiaro, tra i candidati. Kerry è convinto che dall'Iraq non si esce, senza un'implicazione ben più consistente degli Europei. Afferma che le sanzioni contro Teheran non hanno senso, se Washington non induce gli alleati a condividerle. Riconosce il ruolo degli Europei nel tentativo di impedire l'atomica iraniana, ma sostiene che esso sarebbe stato più proficuo se condotto da un'alleanza sotto la guida Usa.

Kerry non è meno imperiale di Bush: vuol esserlo con strumenti meno arroganti, più multilaterali, quindi più durevoli. Quanto al contributo di singoli governi europei in Iraq, Kerry li trascura completamente, definendoli irrilevanti. È irrilevante il contributo della stessa Inghilterra, che ha 8360 soldati mentre gli americani ne hanno 114.000. È irrilevante la Polonia, che ha appena 2400 soldati. L'Italia (2700 soldati) neppure è citata. Dodici Paesi dell'Unione hanno poco meno di 16.280 soldati in Iraq: una cifra che Kerry considera incongrua («una coalizione simile non è genuina») se si pensa che Washington paga il 90 per cento in termini di soldati uccisi e di costi. Se vincerà alle presidenziali, il contributo alleato dovrebbe a suo parere aumentare, non diminuire.

In caso di vittoria di Kerry, dunque, l'Europa dovrà più che mai prendere il proprio destino in mano, divenendo un'Unione sovrannazionale di grandezza strategica. Perché Kerry calcola secondo questo tipo di grandezze, cosa che Bush non fa. Bush ci consente di tirare avanti alla meno peggio con una costituzione che aiuta l'Europa a parlare giuridicamente con una voce sola, ma non le dà né il metodo maggioritario di deliberazione, né i mezzi per far politica su scala continentale. Questo vivacchiare è possibile finché dura il dominio mondiale di Bush. Se il dominio passa a Kerry, gli Europei dovranno compiere un formidabile salto di qualità e divenire veramente Unione. Solo così potrebbero parlare da pari a pari con l'oltre Atlantico: per condividere le poste in gioco, come chiede Kerry, oppure per resistere alle pressioni americane e proporre soluzioni diverse ai conflitti.

Con Kerry non ci sarebbe più scusa, per non fare l'Europa. La sua tesi è che Bush non ha passato il «test globale», nelle guerre preventive antiterrorismo: non ha dato prova né di avere la legittimità, né di poter riuscire. Anche gli Europei devono passare il loro test globale: tale è l’opportunità, incoraggiante, che verrebbe loro data da Kerry vincente. Dovranno certificare la possibilità di una politica estera robusta perché comune, e far sì che essa sia attendibile anche militarmente. Dovranno sforzarsi non già di moltiplicare i seggi permanenti al Consiglio di sicurezza, ma di ottenerne uno in cui saranno presenti in quanto Unione. Non possono più limitarsi a possedere l'euro, e magari a invocare politiche economiche unitarie. Se vogliono contare nel mondo, devono dire per quale comune progetto politico conviene unire le economie: per quale ambizioso progetto di sicurezza, di diplomazia, di ricerca.

Per questo Bush è una manna, ma una manna che ci vizia. Per chiunque prediliga lo status quo, nella costruzione europea, egli è la garanzia che l'Europa non dovrà passare alcuna prova del fuoco, e che i singoli Stati potranno restare ingabbiati nelle loro chimeriche, ma non meno dorate certezze nazionali.

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