Da La Repubblica del 03/10/2004

Solo 20 giorni d´unità nazionale

di Ilvo Diamanti

È durato tre settimane, il clima di unità nazionale. Il tempo del rapimento delle due volontarie italiane in Iraq. Tre settimane. E insieme all´angoscia per le due Simone - chiamate così, in modo familiare, da tutti: uomini pubblici, media e gente comune - è sfumata, svanita, anche la solidarietà sociale e la prudenza del linguaggio. Virtù a cui non eravamo più abituati. Pochi giorni dopo la gioia collettiva del rilascio, assistiamo a un´impetuosa onda di rigetto. Certo, le due volontarie italiane non hanno contribuito a rinsaldare il legame fra le due nazioni che, con fatica, convivono in Italia. Anzi, le loro parole, i riferimenti fatti (e taciuti) nei loro discorsi, dopo il ritorno in Italia, hanno riaperto le polemiche. D´altronde, non si erano rese conto, le due ragazze (ma dovevano davvero?) che, attorno al loro caso, non si erano solo raccolti i cuori di un Paese. Non si erano solo avviati tutti i percorsi possibili della diplomazia e della politica, nazionale e internazionale. Era avvenuto qualcosa di nuovo e singolare. Un esperimento di reciproco riconoscimento, avvicinamento, fra culture politiche, identità religiose. Assolutamente normale, altrove, assolutamente anomalo, in Italia. Dove i precedenti rapimenti avevano suscitato sentimenti e atteggiamenti più contrastanti. Invece in questa occasione è prevalsa la ricerca dell´intesa, del dialogo. Come strategia diplomatica e politica. Il governo, ha riaperto i canali della comunicazione con i paesi arabi, anche i più radicali, come la Siria. E ha assunto posizioni pubbliche nuove, rispetto al passato recente, schiacciato sulle scelte Usa. Come, per esempio, l´invito a cessare i bombardamenti in terra irachena, espresso da Frattini. Inoltre, ha chiesto la collaborazione dell´opposizione, consultandola fino all´ultimo.

L´opposizione di centrosinistra: ha accettato di sedersi al tavolo con il governo e di cooperare. Tenendo distinto e in secondo piano il dissenso irriducibile sull´intervento militare in Iraq. Anche Bertinotti, che per questo ha ricevuto critiche da altri partiti e gruppi della sinistra radicale.

Il dialogo con l´Islam. Hanno partecipato attivamente, al buon esito della vicenda, le comunità islamiche in Italia e i governi dei paesi arabi. Non solo quelli moderati.

Infine, nel dibattito aspro che accompagna la questione della presenza militare italiana in Iraq, tutte le componenti politiche, compresi i settori più radicali del pacifismo, hanno limitato i toni e il linguaggio della polemica. In altri termini, per venti giorni l´Italia è sembrata una democrazia quasi normale. Dove le divisioni non degenerano in fratture, i dissensi in polemiche astiose, le differenze in divergenze irriducibili. Dove il dialogo fra esponenti politici e religiosi, di "diversa fede" si svolge senza declinare in scontro. Per venti giorni non abbiamo sentito gridare: al lupo! Contro i comunisti. Ma neppure contro Berlusconi. Il quale, non a caso, ha preferito il silenzio compunto. Rinunciando ai proclami e alla bandana. E ha ceduto il centro della scena al più defilato, al più mimetico - al più andreottiano - fra i suoi collaboratori e amici. Gianni Letta. Il capo del "governo-penombra" che ha gestito questa emergenza nazionale.

Certo, anche in questa fase di solidarietà non sono mancate voci poco solidali. Critiche alle giovani volontarie, catturate dagli amici saddamisti, alle pacifiste ingenue, ingannate dai loro stessi ideali, dai loro stessi amici. Oppure, per altro verso, i tentativi di discernere gli "ostaggi buoni" (impegnati ad aiutare il popolo iracheno colpito dalla guerra) da quelli "meno buoni" o decisamente cattivi (i militari, i paramilitari, venuti in Iraq al seguito della guerra e a tutela degli "affari altrui"). O viceversa. Separando le Simone (e, magari, Baldoni) da Quattrocchi e gli altri italiani (più fortunati) sequestrati nella scorsa primavera. Non mancavano le polemiche di sfondo e le voci fuori dal coro. Ma, appunto, restavano fuori dal coro, sullo sfondo. Fisiologiche. Mentre, nel dibattito politico di tutti i giorni, appaiono patologiche. O peggio: genetiche. Costitutive.

Così, per venti giorni, si è assistito a prove d´orchestra. Prove di concerto. A una politica estera che vede l´Italia proiettata nel dialogo fra le diverse sponde e culture del Mediterraneo. A una politica interna caratterizzata dal confronto rispettoso e da una modica quantità di reciproco riconoscimento fra schieramenti politici diversi. A una comunicazione pubblica prevalentemente "educata" e sottovoce. Venti giorni di "terza Repubblica". Oltre il consociativismo della prima e il dualismo irriducibile della seconda. Venti giorni di coabitazione tollerante delle diversità, per quanto dettata dalla necessità. Venti giorni. Troppo.

Non l´avevano spiegato, tutto questo, alle due Simone, mentre viaggiavano da Bagdad a Roma. Dopo la liberazione. Né glielo hanno chiarito gli amici volontari, le persone con cui hanno parlato, nella concitazione del ritorno. Che sul loro sequestro si era costruita un´intesa trasversale (come ha sottolineato Berlusconi, ringraziando l´opposizione, quando ha auspicato che lo stesso schema si possa riprodurre in altre occasioni più "ordinarie"). Così sono bastate le prime dichiarazioni, appena scese dall´aereo che le riportava in Italia; e le prime interviste. Appena scese all´aeroporto. Assediate dai media, circuite dai politici. Pochi discorsi pubblici - condizionati dall´emozione e dall´euforia. Dalla confusione di un momento tanto concitato. E tutto è tornato indietro. Come prima. È stato sufficiente scoprire che le due volontarie non avevano cambiato idea: sull´Iraq, sulla guerra, sugli Usa, sugli arabi e sul governo. È bastata la loro reticenza (e il ritardato riconoscimento) circa i meriti del governo (e della Croce Rossa). È bastata la loro enfasi sulla solidarietà degli "altri" (gli arabi, gli islamici). È bastato capire che la prigionia non le aveva cambiate. Ferma la loro intenzione di tornare in Iraq. Ferma la condanna alla presenza dei militari italiani. È bastato questo per chiudere la breve stagione del dialogo. E la diga che frenava il torrente limaccioso del risentimento si è riaperta. Così, all´improvviso, abbiamo letto e sentito discorsi politicamente scorretti e volgarmente ingiuriosi. Espressi con palese compiacimento. Quasi a segnalare la fatica di trattenere tanta melma per un mese. In particolare, le richieste di "risarcimento", alle volontarie irriconoscenti e ai loro soci del volontariato internazionale, per i soldi del riscatto che "noi" abbiamo (avremmo) pagato per loro. Per salvare non due persone, due italiane, ma due complici (più o meno oggettive, più o meno consapevoli) degli stessi gruppi integralisti che le avevano rapite.

I simboli del dialogo possibile si sono trasformati, in fretta, nella metafora dell´impossibile coesistenza fra mondi lontani e incomunicabili.

Le due Simone. Non avevano spiegato loro che erano diventate icone del nuovo clima d´opinione. Che dovevano, per questo, adeguare il loro stile comunicativo, il loro discorso pubblico, alle prove di concertazione interculturale e politica in atto. Che non dovevano apparire partigiane (ma bipartisan); né rivelarsi distratte e ingenerose verso le istituzioni e i soggetti politici che tanto hanno fatto per loro.

Così si è verificata la nemesi. Le due ragazze hanno perso appeal. L´immagine angelicata, proposta durante il sequestro, oggi viene rivisitata. E, deteriorata da alcuni, che, con malcelato piacere, oggi le descrivono "grasse, musulmane e pacifiste". Ne stigmatizzano le parole e le opere, oltre all´immagine. Preoccupati di cancellare, insieme a loro, le tracce del dialogo, disseminate nell´ultimo mese.

Le due Simone. Divenute - loro malgrado - opinion maker. Testimonial del dialogo bipartisan, in Italia. Durante la detenzione irachena. Meglio sarebbe lasciarle stare. Restituirle in fretta alla loro vita privata. Al loro impegno personale. Alle loro idee, alle loro scelte. Condivisibili o meno. Senza caricarle di responsabilità che non le riguardano, che non dipendono da loro. Per liberarle di nuovo. Dall´icona in cui sono imprigionate.

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