Da Il Messaggero del 02/11/2004
Gli Usa combattuti tra paura e speranza
di Franco Ferrarotti
L’AMERICA è oggi una società di circa trecento milioni di abitanti che consuma il settanta per cento delle risorse del pianeta: una contraddizione inaudita, un fenomeno storicamente inedito. L’America che va a votare per il suo presidente è un Paese vasto come un continente, ricco di differenze e di contrasti, relativamente sicuro di sé, della propria forza, ma anche consapevole che è finita la sua invulnerabilità. Due oceani l’Atlantico e il Pacifico non bastano più a proteggerlo.
E’ la sola superpotenza rimasta su scala planetaria, ma è nello stesso tempo la prima società, sul piano mondiale, che si pone come multietnica, multireligiosa, multilinguistica, multiculturale.
Ho assistito al primo e all’ultimo dibattito televisivo fra George W. Bush e John Kerry. I sondaggi li danno alla pari, testa a testa. In realtà, le differenze ci sono, e sono vistose. Il senatore Kerry ha dalla sua una dialettica chiara e stringente. Il giovane cowboy texano è un parlatore meno forbito, indulge forse troppo alle frasi idiomatiche, che però toccano efficacemente il cuore dell’America profonda. Dal punto di vista dei contenuti, non potrebbero essere più lontani. I commenti compresi quelli del nemico numero uno, Osama Bin Laden che li mettono sullo stesso piano non offrono un buon servizio interpretativo al loro pubblico. Bush punta sulla paura. Si presenta come il protettore del suo popolo all’ultimo sangue. Kerry evoca invece la speranza. Nelle sue parole risuona l’eco della famosa perorazione del presidente Franklin Delano Roosevelt nel pieno della grande depressione del 1929: «Ciò di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa». L’America che va a votare è di fronte al dilemma: paura o speranza. Quale delle due Americhe vincerà? Quella che ha paura o quella che crede nella speranza?
Tutto dipenderà dalla capacità dimostrata dai due candidati di parlare all’immaginazione e alla coscienza di questo immenso Paese in continua evoluzione.
Un fattore positivo per Kerry sembra l’interesse, in questo duello elettorale, da parte di un elettorato che tradizionalmente disertava le urne. Kerry ha avuto la mono felice nel far intervenire attori e cantautori. Sembra che i giovani si muovano e che, dopo ogni concerto, comincino a votare per lui con l’ absentee ballot , consentito in un numero maggiore di Stati che per il passato. Ma quando il senatore Kerry si toglieva la giacca, la sua lunga figura dinoccolata di ricco aristocratico aspirante proletario risultava piuttosto improbabile. La tenuta di descamisado veniva più naturale a Bush, il cui inglese non è certo quello del New England, ha però il vantaggio di parlare anche lo spagnolo. Chi dei due avrà saputo convincere l’elettorato del più ricco Paese del mondo, in cui però quaranta milioni di cittadini non sono assicurati per la semplice ragione che non se lo possono permettere? A chi daranno il loro voto gli afroamericani?
Il sogno americano si è appannato. Resiste il mito dell’uomo o della donna che ce la fanno da soli, che arrivano alla sicurezza economica e alla rispettabilità sociale lottando da soli nella giungla di una società che tende a sacrificare la solidarietà all’efficienza. Ma cresce anche la consapevolezza che i problemi dell’individuo non sono solo problemi individuali. Coinvolgono le forze sociali, la politica, la religione, la cultura. Nel famoso “preambolo” della Costituzione americana, steso da Thomas Jefferson, si garantisce a tutti il diritto alla “ricerca della felicità”, la pursuit of happiness. Ma questa ricerca si è ridotta, per molti americani, alla pursuit of loneliness , alla “ricerca della solitudine”. L’America di oggi è una società tecnicamente progredita alla ricerca della comunità perduta. I risultati elettorali ci diranno quale via quella del “rude individualismo” o del Welfare State gli americani sono pronti a battare per recuperare la realtà e il senso dell’Unione costituita dai “padri fondatori” poco più di due secoli or sono.
E’ la sola superpotenza rimasta su scala planetaria, ma è nello stesso tempo la prima società, sul piano mondiale, che si pone come multietnica, multireligiosa, multilinguistica, multiculturale.
Ho assistito al primo e all’ultimo dibattito televisivo fra George W. Bush e John Kerry. I sondaggi li danno alla pari, testa a testa. In realtà, le differenze ci sono, e sono vistose. Il senatore Kerry ha dalla sua una dialettica chiara e stringente. Il giovane cowboy texano è un parlatore meno forbito, indulge forse troppo alle frasi idiomatiche, che però toccano efficacemente il cuore dell’America profonda. Dal punto di vista dei contenuti, non potrebbero essere più lontani. I commenti compresi quelli del nemico numero uno, Osama Bin Laden che li mettono sullo stesso piano non offrono un buon servizio interpretativo al loro pubblico. Bush punta sulla paura. Si presenta come il protettore del suo popolo all’ultimo sangue. Kerry evoca invece la speranza. Nelle sue parole risuona l’eco della famosa perorazione del presidente Franklin Delano Roosevelt nel pieno della grande depressione del 1929: «Ciò di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa». L’America che va a votare è di fronte al dilemma: paura o speranza. Quale delle due Americhe vincerà? Quella che ha paura o quella che crede nella speranza?
Tutto dipenderà dalla capacità dimostrata dai due candidati di parlare all’immaginazione e alla coscienza di questo immenso Paese in continua evoluzione.
Un fattore positivo per Kerry sembra l’interesse, in questo duello elettorale, da parte di un elettorato che tradizionalmente disertava le urne. Kerry ha avuto la mono felice nel far intervenire attori e cantautori. Sembra che i giovani si muovano e che, dopo ogni concerto, comincino a votare per lui con l’ absentee ballot , consentito in un numero maggiore di Stati che per il passato. Ma quando il senatore Kerry si toglieva la giacca, la sua lunga figura dinoccolata di ricco aristocratico aspirante proletario risultava piuttosto improbabile. La tenuta di descamisado veniva più naturale a Bush, il cui inglese non è certo quello del New England, ha però il vantaggio di parlare anche lo spagnolo. Chi dei due avrà saputo convincere l’elettorato del più ricco Paese del mondo, in cui però quaranta milioni di cittadini non sono assicurati per la semplice ragione che non se lo possono permettere? A chi daranno il loro voto gli afroamericani?
Il sogno americano si è appannato. Resiste il mito dell’uomo o della donna che ce la fanno da soli, che arrivano alla sicurezza economica e alla rispettabilità sociale lottando da soli nella giungla di una società che tende a sacrificare la solidarietà all’efficienza. Ma cresce anche la consapevolezza che i problemi dell’individuo non sono solo problemi individuali. Coinvolgono le forze sociali, la politica, la religione, la cultura. Nel famoso “preambolo” della Costituzione americana, steso da Thomas Jefferson, si garantisce a tutti il diritto alla “ricerca della felicità”, la pursuit of happiness. Ma questa ricerca si è ridotta, per molti americani, alla pursuit of loneliness , alla “ricerca della solitudine”. L’America di oggi è una società tecnicamente progredita alla ricerca della comunità perduta. I risultati elettorali ci diranno quale via quella del “rude individualismo” o del Welfare State gli americani sono pronti a battare per recuperare la realtà e il senso dell’Unione costituita dai “padri fondatori” poco più di due secoli or sono.
Sullo stesso argomento
Articoli in archivio
di Timothy Garton Ash su La Repubblica del 20/11/2004
L´America dei devoti non è arretrata, ma moderna e combattiva. Per fare proseliti usa blog e siti web
Il segreto dei militanti della fede vincere con le armi del nemico
Il segreto dei militanti della fede vincere con le armi del nemico
di Simon Schama su The Guardian del 18/11/2004
di Massimo L. Salvadori su La Repubblica del 18/11/2004