Da La Repubblica del 02/11/2004

L´elezione globale

di Vittorio Zucconi

Dopo quattro anni di eventi che avrebbero dovuto cambiare tutto, ritroviamo l´America del dopo Ground Zero apparentemente dove l´avevamo lasciata nel novembre Duemila: una nazione «sull´orlo del collasso nervoso», come ha detto l´anziana e saggia signora Barbara Bush, nevroticamente tagliata in due personalità ostili e insanabili. Un´America divisa che sta subendo e condizionando un mondo diviso dall´America stessa. Forse mai un´elezione nazionale era stata vissuta con tanta intensità, partecipazione e partigianeria fuori dai confini e questa, tra Bush e Kerry, può essere definita la prima "elezione globale", nella quale i 130 milioni di elettori Usa funzioneranno da parlamento planetario e da delegati per sei miliardi di uomini e donne, votando a nome nostro.

Se ciascun elettore americano, o elettore-spettatore, ha ogni diritto di giudicare questo straordinario quadrienno bushiano come vuole, su questa polarizzazione dei sentimenti il giudizio non può che essere aspramente negativo. Un presidente che si era presentato, parole sue, come "uniter" e non come "divider", come colui che avrebbe rimarginato e non aperto ferite, ha fatto il contrario di quanto aveva promesso. Ha utilizzato lo scempio dell´11 settembre per lanciare il manicheismo del «chi non è con me è contro di me» e se oggi raccoglie quello che ha seminato, in patria, in Europa, nel resto del mondo, non ha altri che se stesso da rimproverare. Ma non è il giudizio sul passato quello che oggi importa, mentre attendiamo un esito che auguriamo a noi e a loro limpido e rapido, anziché melmoso e maleodorante come quello del 2000. La domanda che si porranno gli elettori globali è sapere "quale" Bush o "quale" Kerry ci guiderà nel difficilissimo passo dei prossimi quattro anni di una guerra che, come tutte le guerre, si è rivelata assai più facile da cominciare che da finire.

Capire il futuro comportamento di un presidente, anche di uno rieletto, è sempre un esercizio rischioso, perché una nazione che condiziona il mondo, dalle vicende del mondo è naturalmente condizionata. Bush, come prima di lui Roosevelt, Truman, Kennedy, Nixon, Reagan, e Bush il Vecchio, sta finendo il proprio mandato in maniera ben diversa da come ce lo aveva preannuciato, quando escluse il "nation building", la strategia di costruire altre nazioni sulla propria misura e promise «umiltà» in politica estera. Ma una cosa è già chiara. Nè lui, in versione Bush Part 2, né l´inedito Kerry, potranno cancellare la realtà che gli ultimi tre anni hanno creato. Come Johnson ereditò il Vietnam da Kennedy e lo consegnò a Nixon, così l´Iraq, e la cosiddetta "guerra al terrore" sono la realtà che nessuna distinzione di partito può ignorare.

Kerry non sarà il presidente della "grande fuga" da Bagdad perché nessuna America, democratica o repubblicana, vuole perdere e se una guerra non può essere vinta, si deve trovare almeno una cortina fumogena, come accadde per il Vietnam, dietro la quale sganciarsi. Kerry non è ne "falco" né "colomba" come si è tentato di descriverlo con i soliti luoghi comuni. E´ un nuovo animale, un «falco politico», un uomo che per cultura, per formazione, per esperienza personale, può battersi, se necessario, ma vede nella guerra il problema, non la soluzione. E rovescia il celebre detto di Von Clausewitz, considerando la politica come la continuazione della guerra con altri mezzi.

Ma anche un Bush Part Two, se la sua vittoria fosse sottile come indicano i benedetti sondaggi, non potrà spacciare la rielezione come un referendum a favore del suo messianesimo armato. Forse è troppo sperare, come maliziosamente fa Thomas Friedman sul New York Times, che George figlio si trasformi in George padre e capisca finalmente che la globalizzazione della minaccia richiede la convinta globalizzazione della risposta, ma anche nel suo universo mentale semplicisticamente bipolare, la dottrina della "guerra preventiva" è saltata in aria nelle strade irachene. Il suo principale risultato è stato un mondo dove l´ostilità per gli Stati Uniti ha ormai superato l´alveo dell´antiamericanismo preconcetto e dilaga. L´avversione per Bush sta pericolosamente metamorfizzandosi un´avversione per l´America tout court e questa è l´eredità velenosa che Bush, come Kerry, devono al più presto sanare, se la guerra al terrorismo amorfo e diffuso deve avere speranza di soluzione vittoriosa.

L´ironia di questa elezione da "collasso nervoso" è che dietro la spaccatura fra le due mezze Americhe, la politica estera del vincitore potrebbe somigliare alla politica dell´opposizione, assai più di quanto i due campi proclamino. Il sentiero è stato troppo dissestato, in economia, nella finanza pubblica con il totem della riduzione fiscale, nei rapporti sociali, nelle tensioni culturali fra "laici" e "cristiani" attizzate per ignobili ragioni elettorali su gay, aborto, ricerca, dal Bush One, perché grandi svolte epocali siano concepibili in tempi brevi. Il cambiamento sarà più di atteggiamenti culturali che di strategia, di stile ancor prima che di sostanza, come l´opinione mondiale attende per riconciliarsi con la grande sorella invadente e arrogante. Ed è questa la buona notizia per noi, elettori globali immaginari che subiamo le conseguenze reali del voto. È la probabilità di avere alla Casa Bianca una persona, Bush o Kerry, che ha visto l´ennesimo fallimento delle ideologie radicali e riscopre la "american way", la via maestra del pragmatismo. Un presidente che sia decisivo nel mondo, ma con il mondo, e non creda, come il primo Bush, di essere il Salvator Mundi.

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