Da La Repubblica del 03/11/2004

Promise di vendicare la sua nazione, è stato un leader coerente e determinato: la sua rielezione un atto di fede

Il comandante in capo che cambiò l´ordine mondiale

di Vittorio Zucconi

WASHINGTON - «Voi potete votare per me o contro di me, ma dovete riconoscere che io sono un leader che sa dove vuole andare e che mai vacillerà». In questa frase, che George Walker Bush ha martellato nelle ultime ore della campagna elettorale, è racchiusa la sostanza del bilancio che il Presidente ha presentato ieri ai cittadini americani, la chiave per capire perché l´elezione sia rimasta in bilico fino all´ultimo istante. «Bush è il primo presidente in carica che si ripresenti agli elettori non correndo sulla base di quello che ha fatto, ma sulla base di quello che è», ha scritto E. J. Dionne, studioso di elezioni presidenziali. "The man is the record", la persona è il bilancio e dunque le Presidenziali ?04 sono state un referendum su di lui.

Il richiamo alla coerenza, che potrebbe apparire strano in un uomo che aveva cambiato nella propria vita ben tre diverse Chiese - nacque Episcopale, divenne Presbiteriano, ora si confessa Metodista - è dunque il punto dal quale deve partire oggi il bilancio di una presidenza che cominciò nella illusione della "fine della storia".

Proclamare con troppa insistenza la propria fedeltà alla parola data è di solito, per un uomo politico, la spia più sicura del contrario. Ma nel caso di George W. Bush il giuramento di fissità ha un valore speciale, un senso che si capisce soltanto se ci riporta all´atto di nascita della sua presidenza, al giorno nel quale un vecchio giovanotto svogliato e viziato promise sulle rovine delle Torri Gemelle di proteggere e vendicare la propria nazione. Promise il soddisfacimento dei bisogni immateriali di un popolo che a lui si aggrappò. Il bisogno di sicurezza, di orgoglio nazionale, di senso della direzione collettiva, di non sentirsi naufraghi nella corrente della storia che ricominciava a ruggire.

Fu nelle ore successive all´11 settembre 2001 che scattarono per il 43esimo presidente le manette della coerenza. Fino a quel giorno, dall´insediamento il 20 gennaio precedente dopo la incerta legittimità della sua vittoria elettorale, Bush era stato un presidente senza mandato, brancolante entro una mediocrità che aveva seminato molti dubbi sulla sua robustezza intellettuale e sulla sua coerenza. Dopo avere promesso una politica estera "umile", si era lanciato in atti sprezzanti come il rifiuto del trattato di Kyoto sulle emissioni di gas, della corte di giustizia internazionale o del trattato anti-missile con i Russi. L´economia interna, molto prima che arrivassero i terroristi a offrire un tragico alibi, scivolava verso una recessione che era già in atto da otto mesi, e stava rapidamente divorando quei 5 trilioni di dollari che avrebbero dovuto giustificare la grande bonanza fiscale. Non ebbe luna di miele. Anzi, fu guardato spesso come un usurpatore, un sovrano illegittimo, «il Presidente accidentale». Alla fine dell´estate 2001, l´indice di popolarità era inchiodato a un pessimo 50 per cento.

Alla fine di quel settembre era schizzato oltre l´80%. Un popolo infelice della propria condizione materiale aveva trovato in lui il padre putativo che aveva saputo soddisfare quei bisogni immateriali che prima di lui Ronald Reagan aveva saputo interpretare così bene. L´eterno figlio, Georgie, era divenuto George suo padre. L´attacco all´Afghanistan dei Taliban accompagnato da attestati di solidarietà di un mondo che si autoproclamava "tutto americano" fu la conferma della promessa e insieme la costruzione della trappola nella quale sarebbe poi caduto prigioniero. Nell´enfasi che i teologi dell´"imperialismo buono", i neo conservatori, gli avevano messo sulla bocca, Bush si impegnò a perseguire il terrorismo «ovunque si trovasse», creò una sciagurata figura retorica chiamata l´Asse del Male, soprattutto si abbandonò a un impegno fatale, quello di considerare obiettivi legittimi anche tutte quelle nazioni che non fossero state dalla parte sua, il «chi non è con noi è contro di noi». La necessità di continuare a sfamare il desiderio immateriale di rassicurazione e di azione, di trasformare l´immaterialità delle promesse nella concretezza dei risultati lo avrebbe costretto a invadere e occupare l´Iraq. Fu dunque l´imperativo della moralità coerente a spingere Bush alla immoralità della guerra incoerente.

Avrebbe dovuto tornare passeggiando alla Casa Bianca, con un plebiscito, come accadde agli altri presidenti di guerra rieletti mentre la guerra è in corso, anziché arrancare e ansimare. Ma aveva ben poco d´altro di cui vantarsi. La ripresa degli indicatori economici non si è tradotta nella vita quotidiana degli elettori ed è apprezzabile soltanto in rapporto all´anemia dell´Europa. E´ stato il primo presidente in 70 anni a finire il mandato con meno posti di lavoro di quanti ne avesse trovato all´inizio. E tanto Bush che Kerry sapevano bene che dopo la campagna elettorale, il conto terrificante dello sbilancio federale causato dalle fiscal follies e dal suo «spendere come un marinaio ubriaco», secondo il senatore repubblicano McCain, saranno la zavorra di ogni ripresa forte. E la fiscalità allegra e demagogica dovrà subire una robusta frenata per non devastare i conti pubblici.

Si doveva rieleggere Bush perché è Bush, concludeva la argomentazione ellittica dei fedeli rimasti, perché è «sul binario giusto», the right track, e ci resterà. Un atto di fede, per un presidente che si proclama strumento della Provvidenza ma anche la prova della pochezza del «Bush record» che venne proprio da quella allucinata Convention repubblicana di New York nella quale i comizianti consumarono quattro giorni a demolire John Kerry, anziché vantare gli exploit del loro leader. Ecco dunque la scelta che gli elettori avevano davanti: premiare la coerenza dell´uomo o punire l´incoerenza dei risultati? Io sono il programma, la via, la verità, aveva detto Bush e sia fatta la volontà del dio elettore.

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