Da Corriere della Sera del 03/11/2004
Originale su http://www.corriere.it/speciali/2004/Esteri/usa2004/elezioni/corriere/...

Nazione da ricomporre

di Sergio Romano

Prima ancora di comunicarci il nome del nuovo presidente americano queste elezioni ci hanno trasmesso un’immagine degli Stati Uniti che pochi osservatori, sino a qualche mese fa, avrebbero considerato possibile. La maggiore potenza mondiale si è drammaticamente divisa in due campi contrapposti. Proviamo a ricordare gli avvenimenti degli ultimi due anni. Il 12 settembre 2001 Bush ebbe con sé un Paese ferito e impaurito, ma straordinariamente compatto. Soltanto Wilson nel 1917, Roosevelt dopo Pearl Harbor e Lyndon Johnson nelle elezioni del 1964, un anno dopo l’assassinio di Kennedy, poterono contare su un tale grado di unità nazionale. Si dissolse improvvisamente, in quei giorni, il ricordo della Florida e delle contestazioni che avevano avvelenato il voto del 2000. Bush non era più il presidente zoppo, eletto da una minoranza del corpo elettorale e innalzato alla Casa Bianca da una discutibile sentenza della Corte Suprema. Era il presidente degli americani, uniti intorno a lui per combattere la minaccia terroristica.

Comincia allora una fase in cui Bush, come re Mida, trasforma in oro tutto ciò che tocca e gode di una franchigia politica pressoché illimitata. Può introdurre norme che riducono drasticamente le libertà civili dei suoi connazionali. Può dichiarare guerra all’Afghanistan. Può rinchiudere i prigionieri nella grande Bastiglia di Guantanamo. Può voltare le spalle all’Onu e invadere l’Iraq. Può concedere appalti e commesse alle «industrie di famiglia» della sua amministrazione. Può dissipare l’attivo del bilancio e accumulare un considerevole passivo. Può predicare la democrazia in una parte del mondo e sostenere i regimi repressivi dei Paesi di cui ha bisogno.

La situazione comincia a cambiare nella seconda metà del 2003 quando gli americani si accorgono che l’Afghanistan non è stato pacificato, che l’Iraq non è stato debellato, che le armi di distruzione di massa non esistono, che Osama non è stato catturato e che molti dei sospetti imprigionati dopo l’11 settembre sono innocenti. E’ questo il momento in cui l’America dimostra di essere una straordinaria democrazia. Il graduale risveglio di una società intorpidita dalla minaccia terroristica passa attraverso l’ammirevole lavoro delle sue migliori istituzioni. La stampa si scuote di dosso il conformismo patriottico dei primi mesi e comincia a parlare dell’Iraq come venticinque anni prima del Vietnam. I tribunali estendono i diritti costituzionali ai detenuti di Guantanamo. Il Congresso espone alla luce del sole le bugie dell’amministrazione.

Tutto ciò che Bush aveva impunemente fatto sino a quel momento, dalla riduzione delle imposte al nepotismo aziendale dell’amministrazione, comincia a ritorcersi contro di lui. L’America liberale, tollerante e civile divorzia dal suo presidente.

Ma un’altra America, quella della frontiera e del Vecchio Testamento, gli rimane fedele. Conosce i suoi difetti e il suo semplicismo ideologico, ma ammira il suo dogmatismo e crede che persino i maggiori difetti, nei passaggi difficili della storia, possano dimostrarsi utili alla sopravvivenza della nazione. La politica di Bush ha avuto quindi l’effetto di riportare alla superficie, esaltare e irrigidire l’una contro l’altra le due grandi componenti dell’anima americana. Il Paese unito del 12 settembre 2001 è un Paese diviso. Non so ancora, mentre scrivo, chi governerà gli Stati Uniti nei prossimi quattro anni. Ma il nuovo presidente, chiunque sia, non potrà occuparsi soltanto di guerra irachena e crisi economica. Dovrà lavorare a ricomporre l’unità della nazione.

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