Da Corriere della Sera del 03/11/2004

La sinistra spera in Kerry ma sa che è un’incognita

di Massimo Franco

Nelle dichiarazioni ufficiali, le «due Americhe» ricalcano fin troppo fedelmente le «due Italie». George Bush è percepito come una sorta di Silvio Berlusconi d’oltre Atlantico: d’altronde, il premier italiano ha sempre privilegiato e ostentato l’alleanza con l’Amministrazione repubblicana: anche a costo di dispiacere ad alcuni Paesi del vecchio continente. Quasi di rimbalzo, il centrosinistra «vota John Kerry», ritenendolo profeta di «un mondo più sicuro»; ma soprattutto, simbolo di una ricucitura fra Usa e Unione europea, che i Democratici garantirebbero dopo la guerra in Iraq. Dietro questo schieramento, scontato perfino nel non allineamento leghista, si intravedono tuttavia certezze meno granitiche; e qualche dubbio. Piero Fassino ha ammesso che «il legame transatlantico è decisivo». Ma con Kerry alla Casa Bianca, secondo il segretario diessino, «l’Europa avrà meno alibi», perché l’era Bush le ha permesso di adagiarsi sulla condanna dell’unilateralismo, senza porsi altre domande. Il centrosinistra sa che la fine dell’alibi potrebbe significare, in Italia, una tensione lacerante nella politica estera dell’opposizione. Decisioni come la richiesta di ritiro delle truppe italiane dall’Iraq sono state rese possibili, e continuerebbero ad essere facilitate, da Bush alla Casa Bianca.

Sotto voce, nell’entourage di Romano Prodi ci si domanda invece quali sarebbero i contraccolpi della vittoria di Kerry. Le divisioni fra prodiani e minoranza diessina, Rc e Verdi sono state annacquate dalla doppia opposizione a Berlusconi e Bush. Ma se Kerry dovesse chiedere all’Europa la solidarietà politica sull’Iraq, e decidesse di spedire altri soldati a Bagdad, difficilmente il fronte delle sinistre resterebbe unito. Non solo. Il seminario organizzato da ItalianiEuropei nel luglio scorso, a Roma, con alcuni consiglieri di Kerry e dell’ex presidente Clinton, ha detto che l’«agenda» internazionale cambierà poco.

Alla fondazione che fa capo agli ex premier D’Alema e Amato non si nascondono incognite pesanti. Una è che l’Italia berlusconiana o, in prospettiva, perfino quella governata dal centrosinistra, si possa ritrovare strategicamente ai margini più di quanto non accada ora. Nei circoli democratici di Washington, si fa notare, gli interlocutori europei sono altri: in primo luogo Gran Bretagna e Germania. Ma dal punto di vista elettorale, l’elezione di Kerry costituirebbe un vantaggio politico per il centrosinistra e uno svantaggio per Berlusconi, che «perderebbe un punto di riferimento», secondo il ds D’Alema. Il premier ha tifato Bush: se il presidente vince, continuerebbe ad avere a Washington «l’amico George». E nel 2006, in Italia, avrebbe maggiori speranze di spuntarla il suo ultimo alleato mediterraneo.

Significherebbe che la sconfitta dello spagnolo Aznar non è il destino degli amici di Bush. «Ma se vince Kerry, Berlusconi si suicida», spiegava ieri notte al ricevimento romano dell’ambasciata Usa il socialista Gianni De Michelis. «Non so se capisca che rispetto a Schröder e Chirac avrebbe il vantaggio di essere stato vicino all’America in questi mesi. Invece, ha puntato tutto su Bush». In realtà Berlusconi, in visita a Mosca, si prepara a congratularsi con il vincitore, chiunque sia. E il «non fuggiremo» dall’Iraq, ribadito dal ministro della Difesa, Martino, sembra una rassicurazione agli Stati Uniti, comunque.

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