Da Corriere della Sera del 03/11/2004

Bush ha chiesto voti fino all’ultimo «Questa è una notte entusiasmante»

Alla Casa Bianca prima la grande paura per l’ascesa del rivale, poi torna la fiducia

di Aldo Cazzullo

WASHINGTON - Sono così angosciati perché pensano davvero che l'America rischi di risvegliarsi senz'anima e senza difesa. Il presidente è chiuso nella Casa Bianca, a preparare il discorso della sconfitta e quello della vittoria, e nella notte si è lasciato inquadrare per un attimo dalla Cnn in salotto con tutta la famiglia - «Che notte entusiasmante, vincerò!» -; i militanti repubblicani attendono ai cancelli, silenziosi dopo aver gridato al suo passaggio il loro affetto ma anche la loro paura. Sentono il vento della rimonta di Kerry, e ne sono terrorizzati. Perché una sua vittoria, come dice grave un militante dalla voce roca arrivato da Milwaukee, significherebbe che Dio ha abbandonato l'America; e allora da domani l'Iran potrebbe attaccare da un momento all'altro, la Corea del Nord costruirebbe indisturbata la bomba atomica, Osama Bin Laden sarebbe libero di colpire dove e quando volesse. Ecco perché i notabili del partito, riuniti nel Ronald Reagan Building, sono così sollevati quando la tv elenca gli Stati conquistati (Kentucky, Wyoming, Alabama), ed esplodono in un boato ardente ma provvisorio quando il network amico Fox indica il presidente in testa nei conteggi parziali dalla Florida.

Neanche George W. Bush, è apparso molto sicuro di sé per tutta la giornata. Non si è sottratto all'inevitabile professione di ottimismo, al mattino, nel seggio del piccolo villaggio texano di Crawford, 631 residenti più il presidente e la first-lady Laura, come sempre al suo fianco. Ma non doveva sentirsi tranquillo se, dopo il massacrante tour di lunedì - sette Stati - e la notte trascorsa nel ranch, sulla via di Washington si è fermato ancora in Ohio. Era il settimo comizio in sette giorni in quello che Bush considerava lo Stato-chiave, anche perché nessun presidente repubblicano è mai stato eletto senza conquistarlo. L'Air Force One è atterrato sotto la pioggia a Columbus, George W. ha ringraziato le migliaia di volontari che nel frattempo continuavano a telefonare agli indecisi per indurli a votare, i milioni di americani che «pregano per me e mia moglie Laura», i sottoscrittori che hanno portato nelle sue casse 273 milioni di dollari e ora tremano per il loro investimento. Poi è ripartito per Washington, dove un elicottero l'ha portato nel giardino della Casa Bianca trasformato in set televisivo, con le telecamere sui terrazzi delle case affittate dai network internazionali, e una folla che non era però di figuranti ma di uomini e donne davvero in pena per Bush e soprattutto angosciati per la rincorsa di Kerry.

Il presidente ha tentato di tranquillizzarli: «Ora capiremo cosa pensa l'America. Un pensiero che mi riempie di eccitazione». E i collaboratori, come Karen Hughes autrice della sua autobiografia, assicuravano che è proprio così, che tutti loro sono stanchi morti ma lui è «very excited», in questi giorni si è divertito, sull'Air Force One ha scherzato con i piloti simulando di tanto in tanto un attacco a colpi di karatè con urla lancinanti, così per tenerli pronti, tipo l'assistente asiatico con l'ispettore Clouseau. Sulla soglia della Casa Bianca gli hanno fatto trovare il cane Spot, e il presidente si è chinato a tranquillizzare anche lui. Poi si è messo davanti alla tv con Laura e le gemelle Barbara e Jenna, in attesa di raggiungere l'altro set allestito al Reagan Building, per una festa programmata che ancora si esita a cominciare.

I funzionari dell'amministrazione, i volontari del partito, i giornalisti più affezionati alla Casa Bianca - tra cui un altro attivissimo biografo, Bill Sammon, autore di «Misunderestimated», Malsottovalutato, come da storica gaffe di Bush - si confortavano l'un l'altro ripetendosi che mai la nazione potrebbe disfarsi di un presidente di guerra. Eppure i primi dati via Internet sugli exit poll confermavano la sensazione che ha percorso l'America negli ultimi giorni, abilmente alimentata dalla propaganda avversa: tira un vento democratico, Kerry ha coalizzato l'America insoddisfatta e impoverita che non si è riconosciuta, prima ancora che nella guerra in Iraq, nella connotazione ideologica dell'amministrazione Bush, nel rapporto privilegiato con Dio, nel rigorismo etico in sintonia con la militanza delle sette protestanti ma sempre più lontano dalla sensibilità dei giovani, delle classi affluenti, delle metropoli. «Kerry è il più a sinistra tra i candidati democratici degli ultimi vent'anni», dai tempi di Mondale (1984), si allarmano i repubblicani, e magari non hanno torto; di sicuro però il loro candidato non si era mai spostato così a destra dai tempi di Goldwater (1964). Allora fu una «landslide», una valanga per Lyndon Johnson, che vinse ovunque tranne che in Arizona e nel profondo Sud. Stavolta la partita si gioca sul filo, ma l'azzardo dei repubblicani è stato forte, la sfida all'America progressista o semplicemente moderata si rivela rischiosa, e ora può accadere che un partito saldamente maggioritario al Congresso e nel paese (come non era accaduto neppure con Eisenhower e Reagan) debba fare l'alba per sapere se ha salvato la Casa Bianca.

I più detestati tra gli avversari, quelli che al party divenuto veglia suscitano i buuu quando compaiono sullo schermo, sono Michael Moore il regista («fat stupid white man», ciccione stupidone lo insulta un cartello parafrasando il titolo di un suo pamphlet) e Teresa Heinz Kerry, la sfidante di Laura Bush; così diversa - straniera ed ereditiera - dall'immagine rassicurante della first lady, volto umano della Casa Bianca insieme con i suoceri Barbara e George senior, entrambi in attesa in una saletta riservata del Reagan Building. Il timore del patriarca è di rivivere quella notte di 12 anni fa, quando per la prima volta un Bush perse il potere. Allora la sconfitta aveva il volto di Clinton e si abbatté sul clan riunito ad Austin, Texas, ma dopo il presidente organizzò comunque una serata di addio a Washington, parlando con il volto rigato di lacrime: «Non ci volevo venire, però…». E' passata una generazione, la dinastia è tornata, ha governato una fase storica per l'America, ha subito la recessione economica, ha diviso il paese, non ha spento l'incendio del Medio Oriente, anzi; e già questa notte di incertezza è una mezza sanzione. Altre notizie di vittoria, Georgia Tennessee West Virginia, i notabili ballano con figlie e fidanzate al suono dell'orchestra country, è una folla molto più omogenea di quella democratica: bocche anglosassoni quasi senza labbra, anche i pochi neri vestono in grigio. Non si vedono i duri, la Rice e Rumsfeld, rimasti nascosti negli ultimi giorni della campagna, mentre il vice Cheney veniva spedito alle Hawaii e George W. si affidava al suo lato gioviale, sorridendo e rassicurando molto. Ai cancelli della Casa Bianca è rimasto un pugno di militanti. Poco lontano, una famiglia di scoiattoli e la signora Concetta Picciotto, l'italoamericana che da ventun anni vive in una tenda sotto la casa del presidente, resa celebre appunto da Moore in Fahrenheit 9/11. Dice che se pure domani arriva Kerry lei resta qui, non saprebbe dove andare e poi un presidente vale l'altro tanto non cambia niente; ma non è detto che abbia ragione.

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