Da Corriere della Sera del 03/11/2004

Corsa testa a testa nei tre Stati chiave

Nei primi exit poll vantaggio a Kerry. Poi Bush recupera e dice: «Penso che vincerò»

di Ennio Caretto

WASHINGTON - A urne ancora aperte, in un’America che votava in massa nelle più convulse e incerte elezioni presidenziali da quelle del 1968 durante la guerra del Vietnam, il presidente Bush e il senatore Kerry si sono ieri alternati al comando della classifica dei Grandi elettori, cruciale per l’esito finale.

Alle 22, le 4 di stamattina in Italia, Bush aveva operato il sorpasso: era in testa con 171 dei 538 delegati degli Stati americani contro 112 di Kerry ma, come era accaduto in precedenza, le posizioni rischiavano d’invertirsi da un momento all'altro. Il senatore aveva vinto in 11 tradizionali feudi democratici, gli Stati blu della costa nordorientale, e il presidente in 18 tradizionali feudi repubblicani, gli Stati rossi del profondo Sud, il Texas e altri Stati delle praterie. Ma nei tre grandi Stati in bilico tra i due candidati, la Florida, l'Ohio e la Pennsylvania, Kerry e Bush erano pressoché alla pari. Si profilava una sfibrante attesa, come nel 2000, anche se forse senza i ricorsi alla magistratura. Una sorpresa, perché i primi exit poll avevano trovato Kerry in testa, avviato a un sia pure difficile successo.

In prima serata, la proiezione Zogby s ui 538 grandi elettori, i rappresentanti degli Stati, figure anonime che eleggono il presidente, talora contro il voto popolare, aveva destato scalpore: Zogby ne ave va attribuiti 311 al senatore, più dei 270 necessari a vincere le elezioni, contro 213 a Bush, con 14 indecisi.

Un pronostico che era parso confermato dal Drudge Report , un bollettino su Internet, e dal sondaggio Edison Mitossfky . Secondo il Drudge Report , il senatore era in vantaggio di 2 punti nella Florida e alla pari con Bush nell'Ohio. Secondo l’Edison Mitosfky , Kerry precedeva invece il presidente di 2-3 punti nel voto popolare sul territorio nazionale, il 50-51% contro il 48%. Ma si trattava le indicazioni di exit poll erano del tutto provvisori, sebbene avessero trovato riscontro negli opposti umori dei quartieri generali democratico e repubblicano, euforico il primo, sobrio il secondo.

Il Drudge Report e l’ Edison Mitosfky hanno violato la consegna del silenzio dei media americani poche ore dopo che Bush era ritornato a Washington e Kerry a Boston. Zogby li ha imitati più tardi, ampliando il distacco tra i due candidati. Il presidente e il senatore si erano fermati rispettivamente nell'Ohio e nel Wisconsin per tenere un ultimo comizio. L'America si stava recando alle urne in percentuali record, dal 58% al 60% degli aventi diritto al voto, forse di più, tra 118 e 120 milioni di persone, o addirittura 125 milioni. Bush e Kerry apparivano stanchi ma sereni, erano circondati dalle mogli e i figli.

«Penso che vincerò - ha detto il presidente - e mi auguro che l'esito delle elezioni sia chiaro e netto: il mondo guarda alla nostra democrazia». «Sono lieto che tanti americani votino - ha dichiarato il senatore - sono in gioco le speranze del paese, credo di avere spiegato bene perché sia necessario un cambiamento».

Per l'elettorato Usa, è stata una giornata di suspence e di passione. Dall'alba, le radio e le tv non hanno fatto che parlare dei due candidati, dei sondaggi che li vedevano in quasi assoluta parità, dei problemi e delle battaglie legali al seggi.

C'era la sensazione di una svolta storica, il desiderio di evitare il bis della Florida del 2000, di recuperare la politica, lo si vedeva nelle immense code e nelle dispute del pubblico. I dati erano pochi. A Dixville Notch e ad Hart Location, due paesini del New Hamphsire, si era votato la mezzanotte precedente, e Bush aveva ricevuto più suffragi, 35 a 21.

Di più: sebbene la partita fosse più aperta che mai, coi giornalisti al seguito il presidente dimostrava un insolito ritegno, come se le informazioni del suo entourage non lo rallegrassero. E' toccato a Carl Rove, il guru elettorale della Casa Bianca, contestare gli exit poll e le previsioni sui Grandi elettori. «Siamo in buona posizione, non è vero che l'alto afflusso alle urne ci danneggi» ha sostenuto Rove, dando per certa la rimonta dopo i successi iniziali nel profondo Sud.

In tutta la nazione, i repubblicani stavano mobilitando la base e gli indecisi, uno spettacolo a cui non si assisteva dai tempi di Lyndon Johnson e di Richard Nixon. La grande incognita erano i nuovi votanti, la cellular generation , la generazione dei telefonini, alla prima prova elettorale, le minoranze e i poveri trascurati nel 2000.

Per non ripetere gli errori del 2000, neppure a tarda ora gli esperti si sono pronunciati, in attesa di una verifica a mezzanotte, le 6 di stamane ore italiane. Ma molti ponevano l'accento sulla rapidità con cui Kerry sembrava avere ridotto il distacco da Bush sui temi più scottanti come la lotta al terrorismo. Nonostante il riserbo, il senatore avrebbe conquistato l'elettorato femminile, il 55% contro il 45%, mentre il presidente avrebbe conquistato quello maschile, il 54% contro il 44%.

Anche questo era un segnale che le elezioni del 2004 potevano riservare una sorpresa. Una cosa sola era certa: che l'America stava dando un esempio di impegno e civismo, di vitalità e coraggio in uno dei suoi momenti più bui, a elezioni tenute sotto l'incubo del terrorismo e dei diversi sistemi di voto. Tutte circostanze che hanno reso assai più improba la lettura del suo esito, ma che restituiranno agli americani e al mondo la fiducia nella sua leadership . Anche se dovesse perdere, Bush reggerà l'amministrazione per altri 80 giorni con la consapevolezza di dovere seguire le indicazioni delle urne, Iraq incluso. L'America è divisa, ma non più come quattro anni fa.

Lo storico Robert Dallek ha ricordato che alle elezioni del 1980, quando si ritirò alla Casa Bianca alla vigilia del voto, un altro presidente assediato dall'Islam, Jimmy Carter, ostaggio dell'Iran e dello ayatollah Khomeini, sapeva che il giorno dopo sarebbe stato sconfitto alle urne da Ronald Reagan. Dallek ha precisato che non era il caso di Bush, che il presidente poteva ancora prevalere, come dicevano i sondaggi interni dei repubblicani. Lo storico ha messo in dubbio che i primi exit poll siano attendibili. Ma ha sottolineato che se avesse luogo, il cambio della guardia non sarebbe traumatico. L'America mutò cavallo in mezzo al guado in momenti ancora più drammatici: la guerra di Corea, quando ad Harry Truman subentrò Ike Eisenhower, e la guerra del Vietnam quando Richard Nixon subentrò a Lyndon Johnson in un paese in fiamme.

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