Da La Stampa del 27/10/2004
L'altro volto di Sharon
di Fiamma Nirenstein
Quando Israele e il mondo intero ripenseranno alla data storica in cui in nome della pace fu scardinato uno dei credo fondamentali del sionismo, precedente alla Guerra dei Sei Giorni, ovvero l’idea dell’insediamento sulla terra come redenzione della sofferenza ebraica nei secoli, subito la memoria dipingerà loro il volto stanco e determinato di Ariel Sharon mentre rivolgendosi ai settler con voce incespicante e rotta dice al Parlamento: «E’ la scelta più difficile della mia vita»; e poi aggiunge rivolto ai profughi palestinesi: «Sento la pena del sacrificio degli innocenti fra di voi».
Sharon, con la decisione di sgomberare Gaza e il Nord della Samaria, si è inerpicato sulla dura e incerta strada di Ytzchack Rabin: come lui è un generale, un capo di stato maggiore, un primo ministro, ma soprattutto un uomo che sa, come tutto il popolo d’Israele, come sia dura la guerra che uccide i figli e che colpisce anche gli innocenti dell’altra parte. Come Rabin, rischia sulla sua pelle, in ogni senso. Hanno buon gioco coloro che oggi, dopo la delusione di Oslo, lo avvertono del rischio di ulteriore spargimento di sangue. Ma Sharon capisce che Israele porta su di sé il compito di cercare una strada di pace anche nella selva del terrorismo.
Megli Anni 70 Menachem Begin, uomo di destra, di natura intransigente, gettò tutto il suo peso nella pace con l’Egitto, segnando la strada che Sharon oggi segue. La seguì anche Ytzchack Shamir che andò nel ’91 al summit di Madrid per parlare con gli uomini di Arafat e promettere loro terra in cambio di pace. Ma Sharon non può portare a casa gli 86 voti di Begin, il suo successo personale, perché non ha di fronte un grande partner come Anwar Sadat, che attraversando oceani di odio e ghiaccio venne fino alla Knesset a portare una parola di pace. Non può contare neppure sulla speranza che ancora animava Shamir. La forza di Sharon la si capisce guardando nelle acque limacciose di questi quattro anni. Sharon non ha partner, ha subìto come primo ministro quattro anni di terrorismo suicida, ha combattuto con durezza e con molta riprovazione internazionale; il consenso non gli interessa. E non può negoziare la sua uscita da Gaza e da parte della West Bank: gioca al buio sulla possibilità che su Gaza libera si ricostruisca una leadership palestinese pronta a governare e a trattare, e punta il massimo sul rifiuto morale a dominare un popolo che diventa di giorno in giorno più disperato e demograficamente dominante. Intacca con le sue decisioni la sua stessa immagine, la cambia, la stravolge, la rende odiosa agli occhi di chi lo amava e amata agli occhi di chi lo odiava. La verità è che non lo abbiamo capito: Sharon non abbandona né l’idea enunciata fin da quando fu testa a testa alle primarie con Netanyahu, e chiese di essere eletto sull’ipotesi dello Stato palestinese, né cesserà di combattere la guerra al terrore, sconosciuta frontiera di uno scontro che implica anche i civili, con determinazione. Così facendo sconvolge gli schemi, specie quelli di coloro che se l’erano dipinto come il generale che entrò in Libano. Sharon invece vuole passare alla storia come il leader che uscì da Gaza.
Sharon, con la decisione di sgomberare Gaza e il Nord della Samaria, si è inerpicato sulla dura e incerta strada di Ytzchack Rabin: come lui è un generale, un capo di stato maggiore, un primo ministro, ma soprattutto un uomo che sa, come tutto il popolo d’Israele, come sia dura la guerra che uccide i figli e che colpisce anche gli innocenti dell’altra parte. Come Rabin, rischia sulla sua pelle, in ogni senso. Hanno buon gioco coloro che oggi, dopo la delusione di Oslo, lo avvertono del rischio di ulteriore spargimento di sangue. Ma Sharon capisce che Israele porta su di sé il compito di cercare una strada di pace anche nella selva del terrorismo.
Megli Anni 70 Menachem Begin, uomo di destra, di natura intransigente, gettò tutto il suo peso nella pace con l’Egitto, segnando la strada che Sharon oggi segue. La seguì anche Ytzchack Shamir che andò nel ’91 al summit di Madrid per parlare con gli uomini di Arafat e promettere loro terra in cambio di pace. Ma Sharon non può portare a casa gli 86 voti di Begin, il suo successo personale, perché non ha di fronte un grande partner come Anwar Sadat, che attraversando oceani di odio e ghiaccio venne fino alla Knesset a portare una parola di pace. Non può contare neppure sulla speranza che ancora animava Shamir. La forza di Sharon la si capisce guardando nelle acque limacciose di questi quattro anni. Sharon non ha partner, ha subìto come primo ministro quattro anni di terrorismo suicida, ha combattuto con durezza e con molta riprovazione internazionale; il consenso non gli interessa. E non può negoziare la sua uscita da Gaza e da parte della West Bank: gioca al buio sulla possibilità che su Gaza libera si ricostruisca una leadership palestinese pronta a governare e a trattare, e punta il massimo sul rifiuto morale a dominare un popolo che diventa di giorno in giorno più disperato e demograficamente dominante. Intacca con le sue decisioni la sua stessa immagine, la cambia, la stravolge, la rende odiosa agli occhi di chi lo amava e amata agli occhi di chi lo odiava. La verità è che non lo abbiamo capito: Sharon non abbandona né l’idea enunciata fin da quando fu testa a testa alle primarie con Netanyahu, e chiese di essere eletto sull’ipotesi dello Stato palestinese, né cesserà di combattere la guerra al terrore, sconosciuta frontiera di uno scontro che implica anche i civili, con determinazione. Così facendo sconvolge gli schemi, specie quelli di coloro che se l’erano dipinto come il generale che entrò in Libano. Sharon invece vuole passare alla storia come il leader che uscì da Gaza.
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