Da Corriere della Sera del 25/10/2004
Dopo il «New York Times» anche il «Washington Post» dichiara il suo appoggio al candidato democratico
Il senatore conquista il sostegno dei grandi giornali
di Ennio Caretto
WASHINGTON - Se votassero i giornali americani, Kerry non vincerebbe, stravincerebbe le elezioni. Secondo Editor and publisher , la Bibbia del settore, sinora 120 quotidiani e riviste si sono schierati per lui contro i 70 che hanno scelto Bush. Una disparità che si riflette anche nel numero dei lettori: 14 milioni e 200 mila per il senatore, 6 milioni 600 mila per il presidente. Rispetto al 2000, a 8 giorni dal voto Bush ha perduto l'appoggio di 27 giornali, di cui 15 di destra. Alcuni sono passati a sinistra, come il Chicago Sun-Times nell'Illinois e l' Orlando Sentinel in Florida, lo Stato in bilico per antonomasia. Altri si sono astenuti, come il Detroit Free Press nel Michigan e il Times Picayne a New Orleans nella Louisiana. Sono rimasti con il presidente la Chicago Tribune , il New York Post e il Denver Post del Colorado. Ma sono dati provvisori, tra breve dovrebbero pronunciarsi per lui anche il Los Angeles Times e il Wall Street Journal .
L'ultimo giornale a schierarsi con Kerry ieri, dopo il prestigioso settimanale New Yorker , è stato il Washington Post . Una sorpresa, perché il Washington Post , a differenza del New York Times , un bastione liberal, aveva sostenuto Bush nella guerra dell'Iraq. Ma il quotidiano è tornato alle posizioni del 2000, quando parteggiò per il candidato democratico Gore. In un lungo editoriale intitolato Kerry for president , ha scritto che Bush «non si è guadagnato un secondo mandato» e che «tutto sommato, Kerry, con la sua promessa di essere risoluto ma saggio e aperto, può meglio rivendicare la guida del Paese nei prossimi quattro anni». Un endorsement (investitura) non entusiasta, al pari di molti altri, precisa l'editoriale, dovuto più agli errori del presidente in Iraq e alla sua «avventata» politica economica che non alle virtù del senatore.
Il «no» dei giornali a Bush non sembra però preoccupare i repubblicani. Innanzitutto, rileva il direttore della sua campagna elettorale Ed Gillespie, in maggioranza essi sono tradizionalmente più a sinistra dell'elettorato. In secondo luogo, tra le radio e tv locali il rapporto di forze viene rovesciato, come ammettono anche i democratici, sebbene non ci siano statistiche ufficiali in merito. L'influenza degli editoriali sugli elettori, infine, è storicamente limitata. Inoltre, in alcuni Stati in bilico i quotidiani appoggiano il presidente: caso tipico è quello del Columbus Dispatch nell'Ohio. Gillespie sottolinea che i sondaggi continuano a dare un lieve vantaggio a Bush: il 2 per cento secondo lo Zogby Reuters , il più seguito; 222 grandi elettori contro 211 secondo il Wall Street Journal (per essere eletti, ne occorrono 270).
Ma a parere degli esperti le elezioni del 2004 non sono elezioni normali per un motivo inaspettato: che potrebbero votare da 118 a 121 milioni di persone, contro 105 milioni nel 2000. Come voterà il nuovo elettore, questo sconosciuto? Si è chiesto lo stesso Washington Post in prima pagina. Il suo sarà un referendum solo sulla sicurezza nazionale come vorrebbe Bush, o anche sulla guerra dell'Iraq, l'economia, e così via, come vorrebbe Kerry? Nel primo caso, vincerebbe il presidente, nel secondo potrebbe vincere il senatore.
L'ultimo giornale a schierarsi con Kerry ieri, dopo il prestigioso settimanale New Yorker , è stato il Washington Post . Una sorpresa, perché il Washington Post , a differenza del New York Times , un bastione liberal, aveva sostenuto Bush nella guerra dell'Iraq. Ma il quotidiano è tornato alle posizioni del 2000, quando parteggiò per il candidato democratico Gore. In un lungo editoriale intitolato Kerry for president , ha scritto che Bush «non si è guadagnato un secondo mandato» e che «tutto sommato, Kerry, con la sua promessa di essere risoluto ma saggio e aperto, può meglio rivendicare la guida del Paese nei prossimi quattro anni». Un endorsement (investitura) non entusiasta, al pari di molti altri, precisa l'editoriale, dovuto più agli errori del presidente in Iraq e alla sua «avventata» politica economica che non alle virtù del senatore.
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