Da Il Messaggero del 20/10/2004

LA SENTENZA

«Falcone fu linciato anche da ambienti istituzionali»

La Cassazione: imprudenti parole di Sica, Misiani e Mori diedero spunto ai detrattori. L’Addaura opera di Cosa Nostra

di Rita Di Giovacchino

ROMA - L’estate dell’89 fu un’estate torbida di veleni. L’anno prima era stato nominato capo dell’Alto commissariato antimafia il pm romano Domenico Sica. Giovanni Falcone fu invece silurato, com’era già accaduto per la nomina a consigliere istruttore: gli era stato preferito il giudice Antonino Meli per motivi di anzianità. Ma il punto più alto di crisi, nei rapporti interni alle istituzioni antimafia, è indubbiamente legato al fallito attentato all’Addaura. Una pagina terribile, che anticipò di tre anni la strage di Capaci. Sono passati più di 15 anni ma soltanto ieri la Cassazione, con una sentenza durissima, ha messo la parola fine ai misteri del fallito attentato restituendo onore a Falcone, il “più famoso e capace dei magistrati italiani”.

Il fallito attentato non fu opera dei servizi segreti ma di Cosa Nostra, scrivono i giudici della seconda sezione penale, la stessa che la scorsa settimana ha emesso la sentenza Andreotti. Questo non assolve gli apparati coinvolti nel linciaggio morale del Giudice (che in segno di rispetto viene sempre scritto maiuscolo). Perché Falcone fu indubbiamente vittima di un «infame linciaggio da parte di ambienti istituzionali, il cui unico scopo era la delegittimazione». E non esclude che la mafia abbia cercato di sfruttare il momento favorevole all'azione, venutasi a creare «a causa di improvvidi e sleali attacchi in ambito istituzionale». Nella sentenza viene ricostruito il clima di «torbidi giochi di potere, meschini sentimenti di invidia e di gelosia», di cui il magistrato fu vittima. L’invettiva della Suprema Corte ricade sugli ex giudici Sica e Francesco Misiani e sull’allora colonnello dei carabinieri del Ros Mario Mori, oggi direttore del Sisde. «Resta il dato sconcertante - è scritto nella sentenza - che autorevoli personaggi pubblici, investiti di alte cariche e di elevate responsabilità, si siano lasciati andare, in una vicenda che, per la sua eccezionale gravità, imponeva la massima cautela, a così imprudenti dichiarazioni tali da fornire lo spunto ai molteplici nemici di inventare la tesi del falso attentato». In sintonia con l’ordine di Cosa Nostra ai suoi uomini di divulgare la calunniosa notizia che «l'attentato “se l'era fatto lui stesso”».

Voci ingiuriose che trovarono eco anche nelle famose lettere del Corvo, dove si arrivava a ipotizzare che Falcone per giungere alla cattura di Totò Riina, e rilanciare così il suo ruolo, aveva fatto rientrare clandestinamente a Palermo il pentito Totuccio Contorno, il quale non aveva esitato a commettere nuovi omicidi all’ombra delle protezioni assicurate. Sica catturò l’impronta di un magistrato, Alberto Di Pisa, sostenendo che un identico frammento era stato recuperato su una delle lettere. Di Pisa fu processato e poi assolto. Per finire si avanza l'ipotesi che l'artificiere dei carabinieri Tumino «con il suo comportamento inquietante» (provocò la dispersione dell’ordigno) abbia agito «su incarico» della mafia e non per conto dei servizi.

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