Da La Repubblica del 20/10/2004
Originale su http://www.repubblica.it/2004/j/sezioni/economia/eccofinanziaria2/bluf...

COMMENTO

Il bluff fiscale del premier

di Massimo Giannini

PRIMA la legge sul falso in bilancio. Poi la Tremonti-bis. Adesso anche il condono sull'Iva. La bestia nera del governo Berlusconi non è l'opposizione a Roma, ma la Commissione a Bruxelles. Eppure, mentre di giorno la Ue smonta un pezzo alla volta le scelte economiche del centrodestra, di notte la maggioranza si affanna a tessere la tela di una "riforma fiscale" sempre più improbabile e avventurosa. Solo tre aliquote Irpef, al 23, al 33 e al 39%. Aumenti modesti nelle detrazioni e negli assegni per le famiglie monoreddito. "No tax area" a quota 7.500 euro. Pochi spiccioli, e per giunta maldistribuiti: nel migliore dei casi, un risparmio medio d'imposta intorno ai 500 euro l'anno.

Tuttavia, con questi chiari di luna, chi non sottoscriverebbe una "riforma" del genere? Costa teoricamente poco sul piano dell'onere contabile: 6,5 miliardi di euro. Rende potenzialmente molto sul piano del consenso politico: Berlusconi può presentarsi alle regionali del 2005 e alle politiche del 2006 dicendo agli italiani "ho mantenuto la mia promessa".

Ma la realtà imposta dal ciclo congiunturale è molto più complicata, e spietata, rispetto ai sogni indotti dal ciclo elettorale. Questa rozza e sconclusionata applicazione dello slogan vincente del 2001, "meno tasse per tutti", incappa in un doppio vincolo, difficilmente aggirabile. Il primo è un vincolo di "quantità". Intanto: quale spinta può dare alla ripresa e ai consumi una "mancia" annuale da meno di un milione di vecchie lire a famiglia? E soprattutto: dov'è la copertura finanziaria? Per il presidente del Consiglio questo non è mai stato un ostacolo: il premier è sempre stato e resta tuttora convinto che evocare il "miracolo" sia sufficiente ad autoprodurlo. Per l'ex ministro dell'Economia questa era addirittura un'opportunità: lo stimolava a improvvisare l'ennesimo illusionismo tributario (sanatoria, una tantum, cartolarizzazione), sicuramente già pronto nell'inesauribile cilindro di Giulio Tremonti, il "mago dei numeri". Ma per il ministro del Tesoro attuale questo è un problema non eludibile. Il nostro Paese, che oggi paga la disinvoltura contabile di questi ultimi tre anni, è nel mirino della Ue. Pesa l'allarme suonato una settimana fa dal governatore della Banca d'Italia: con un deficit lanciato verso il record del 4,4% del Pil nel 2005, Fazio avverte che "i necessari provvedimenti di rilancio dell'economia richiedono il reperimento, su base durevole, di risorse aggiuntive rispetto a quelle indicate dalla Finanziaria", e che "ogni intervento di riduzione del prelievo fiscale non fondato sul rallentamento dell'espansione della spesa non è sostenibile".

Finora non c'è risposta a questi avvertimenti. Siniscalco esibisce, ma non chiarisce. Giura che se il maxiemendamento fiscale sarà contenuto nella misura intermedia di 6,5 miliardi di euro "la copertura c'è già, ed è blindata". Ma non dice qual è, e non apre spiragli su questa presunta blindatura. E invece sarebbe davvero ora di farlo. La stessa Finanziaria da 24 miliardi di euro, già varata dal governo, è piena di buchi neri ancora non colmati. All'aleatorietà applicativa del tetto del 2% alle uscite correnti, si somma adesso il progressivo svuotamento delle poche cose buone che il Tesoro aveva azzardato sul fronte delle entrate. Prima tra tutte la revisione degli studi di settore, che doveva fruttare 3,8 miliardi di euro di gettito e sulla quale il ministro ha già fatto una sorprendente retromarcia di fronte alle rituali pressioni corporative dei commercianti. Ma ora c'è di più. Un pacchetto di ulteriori sgravi fiscali per le persone fisiche. Una manna, se nel bilancio pubblico ci fossero le risorse necessarie a erogarli. Una trappola, se quelle risorse vengono reperite attraverso la classica "partita di giro" dell'aumento delle tasse locali. Il governo ha il dovere politico della trasparenza, di fronte ai contribuenti italiani e alle autorità europee.

Il secondo è un vincolo di "qualità". Anche questa sedicente "rivoluzione copernicana" del fisco, come è già accaduto per quella della Costituzione e come sta per accadere per quella della giustizia, è un bluff pasticciato e destabilizzante. Non riforma, ma piuttosto deforma il sistema tributario. È lo specchio delle diverse identità della coalizione. Ne riflette le culture politiche originarie, e inconciliabili. Nasce da un'alchimia identitaria ambiziosa, ma irrisolta.

Da una parte c'è il proto-liberismo titanico della destra berlusconiana, di cui proprio Tremonti è stato il braccio armato. Un liberismo istintuale che, privo di radici dottrinarie domestiche, mutua il suo progetto da quello della destra repubblicana di Bush. Quello che mira alla riduzione delle tasse perché vuole la riduzione del settore pubblico. Quello che non crede alla funzione redistributiva dell'imposta perché non crede alla funzione regolatrice dello Stato. Quello che crede nella curva di Laffer, quindi riduce prima di tutto le tasse sui ricchi. Quello che fa dire al presidente della "American for tax reform", Groven Norquist, "io non voglio abolire il governo, voglio semplicemente ridurlo a dimensioni tali che possa trascinarlo in bagno per affogarlo nella vasca". Lo stesso che fa scrivere a Tremonti un libro-manifesto per Forza Italia, intitolato "Lo Stato criminogeno". La prima delega fiscale in tre moduli, lanciata tre anni fa dallo stesso Tremonti, nasce così. Irpef con due sole aliquote, zero tasse per i redditi alti, zero progressività dell'imposta. Berlusconi resta affezionato a quel progetto. Ancora oggi insiste con Siniscalco per un folle pacchetto di sgravi fiscali da oltre 12 miliardi di euro, a dispetto di una spesa primaria corrente che, secondo la Banca d'Italia, l'anno prossimo supererà il 40% del Pil, tornando "in prossimità dei livelli dei primi anni '90, e inferiore solo al picco del 1993". Per intenderci, l'anno dopo la maxi-svalutazione della lira e la maxi-stangata da 98 mila miliardi di lire dell'allora governo Amato.

Dall'altra parte c'è l'anima sociale post-fascista della destra finiana. Quella che spinge il vicepremier ad arginare gli "animal spirits" del Cavaliere. Che lo costringe a esaltare i doveri dello Stato e a rappresentare i diritti del pubblico impiego. A frenare sui tre scaglioni Irpef, e a ripetere (come ha fatto ancora ieri) che "la priorità della riforma fiscale è la difesa dei ceti medi", e che è essenziale "un contributo di solidarietà per i redditi più alti". In mezzo, a mediare il non mediabile, c'è il centro moderato folliniano, neo-cattolico e familista, al quale si appoggia Siniscalco, il ministro "impolitico" che, con la sapienza dorotea del più consumato dei politici, cerca di sopire i contrasti e di ammortizzare le spinte. Da questa mediazione non ci si può attendere granché. Come scrivono Massimo Baldini e Paolo Bosi su Lavoce. info, "si delinea una riforma fiscale che aumenta le disuguaglianze", e i cui "maggiori beneficiari sono i redditi più bassi e quelli più alti, mentre i guadagni sono inferiori per le classi centrali della distribuzione del reddito".

È il prezzo da pagare alle esigenze mediatiche e pre-elettorali del Cavaliere. Senza nulla concedere al "partito delle tasse", che pure esiste e resiste in certa sinistra, mai come stavolta, nel populismo leaderistico dei liberisti alle vongole italiani, rischia di dimostrarsi vera la tesi di Thomas Friedman sul "capitalismo compassionevole" dei fondamentalisti anti-statalisti americani: ogni volta che vi promettono "meno tasse" - ha scritto il principe degli opinionisti del New York Times - ricordatevi di sostituire la parola "tasse" con la parola "servizi". Solo a quel punto potete decidere se rivotarli oppure no.

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