Da Il Mattino del 12/10/2004

La nuova Kabul

di Vittorio Dell'Uva

Kabul. Il cemento incombe sulle tende strappate dal vento, riparo dei cinquemila profughi accampati ai margini del quartiere di Ainron all'imbocco della strada del nord. La nuova Kabul avanza con i bulldozer dando valore a immense distese di sabbia. Non c'è periferia che non abbia la sua fabbrica di mattoni e lunghe distese occupate dai pali che serviranno per impalcature precarie. Sui cristalli di alcuni edifici del centro si riflettono le rovine dei troppi conflitti afghani.

L'edilizia è un affare che attira «corporation» di molte parti del mondo facendo impazzire un mercato che continua a penalizzare quanti vivono di un onesto stipendio. Una casa decente non costa meno di seimila dollari a vano. Il reddito annuo dei singoli sfiora in media i centocinquanta dollari. Qualcosa non quadra, anche se il dopoguerra ha fatto affluire a Kabul organizzazioni ed imprese che non badano a spese ed hanno bisogno di uffici ed alloggi. Tornano in circolo danari accumulati in segreto per anni o dalla provenienza assai incerta. Il mattone è da sempre alleato del riciclaggio. «Tra i mali maggiori della società afghana bisogna collocare la corruzione che ormai è incontenibile. Qui non esiste la legge», osserva l'italiano Alberto Cairo, che ha attraversato più regimi offrendo da oltre quindici anni una speranza alle migliaia di mutilati che hanno bussato al suo laboratorio annesso ad un ospedale di Kabul.

La richiesta di mazzetta si è fatta plateale e senza pudore, la dazione scontata. Piccole «tangentopoli» trovano il tempo che trovano. Funzionari pescati con le mani nel sacco non fanno fatica a trovare la via del perdono. Le tribù sono una lobby che la sua influenza, in caso di necessità, la sa esercitare. Se Amhid Karzai sarà presidente, con il compito di costruire lo Stato, dovrà su questo terreno affrontare una delle sfide più impegnative. Altre, naturalmente, e di pari portata lo attendono.

«Se vogliamo riformare questo Paese, bisogna eliminare ministri e governatori corrotti», sostiene con un certo coraggio Mirwais Yassin, che ha il ruolo di responsabile nazionale dell'antidroga. Ma non è al «piccolo cabotaggio» che si riferisce, piuttosto è la grande metastasi che lo preoccupa. Il partito trasversale del «papavero», infatti, accorpa signori della guerra, capi tribù, alti funzionari e narcotrafficanti di vario livello che controllano il 75 per cento della produzione mondiale di oppio. Il suo giro di affari, già calcolato in duemilacinquecento milioni di dollari, sta per produrre nuovi profitti. «I raccolti di quest'anno potrebbero rivelarsi i maggiori di tutti i tempi», è l'analisi preoccupata di Zalmai Sherzad dell'Unodc, l'agenzia delle Nazioni Unite per la lotta alla droga e alla criminalità. Vuol dire che si andrà oltre le 3.600 tonnellate per effetto dell’estensione delle colture lungo tutta la dorsale est del confine con il Pakistan e che occupano più di ottantamila ettari di zone irrigate.

Disintegrare il potere dei narcos afghani è nei progetti di Amhid Karzai, ma soprattutto degli Stati Uniti che sperano di non incontrare gli stessi problemi che, nello stesso settore, hanno avuto in Colombia. È contro la droga che, a breve, verrà scatenata una nuova guerra nel cuore dell'Asia. Vincerla non sarà così facile. Dalla produzione e dalla commercializzazione dell'oppio e dell'eroina, che sempre di più viene «fabbricata» in casa per sommare proventi a proventi, deriva il 75 per cento della ricchezza prodotta nell'intero Paese. Chiudere la più grande industria afghana senza predisporre alternative credibili potrebbe avere devastanti riflessi. «Coltivare il papavero consente ad un milione e settecentomila famiglie di procurarsi un reddito per sopravvivere. Ormai è salito al settanta per cento il numero di agricoltori orientati a produrre di più», osservano alla agenzia dell'Onu di Kabul dove si prepara l'ennesimo allarmato rapporto. Nè manca, a complicare le cose, l'indotto. Ci sono signori della guerra che pagano direttamente con partite di oppio il salario ai miliziani. Ricadute non mancano su occasionali «spalloni» che varcano i confini con il Pakistan.

L'azione repressiva che si preannuncia, con operazioni militari, dovrà necessariamente accompagnarsi a forti investimenti e a un processo rapido di riconversione, è l'analisi di più diplomatici europei. L’istituzione di un ministero della lotta alla droga, che Washington invoca, da sola non basta. C'è da inculcare il senso dello Stato a cominciare da burocrati e i militari. Spesso è capitato che partite di droga sequestrate si siano perse per strada prima di venire distrutte. Affidarsi per correzione di rotta alla giustizia è al momento pura illusione. Una nuova classe di magistrati fa fatica a formarsi, nonostante l'impegno della comunità internazionale e dell'Italia in particolare che ha mandato istruttori di rango. Troppa sharia e poco codice penale si proiettano come una ipoteca sull'immediato futuro.

L'Afghanistan che è andato con entusiasmo alle urne per le prime elezioni democratiche, tende ancora a respingere molti dei modelli occidentali cui di colpo si è trovato di fronte. Gli Internet cafè si moltiplicano nelle sue strade, i telefonini hanno cominciato a squillare nelle strade di Kabul, ma in quasi tutte le province permane un potere che fu in grado anche di resistere alla stagione dei taleban. Ne è prova il lentissimo processo di disarmo di mujiaddin veri e presunti. Dei cinquantamila miliziani al servizio delle varie fazioni, soltanto un terzo ha deposto il kalanshinkov. Sull’opportunità di consegnare duecento carri armati continuano ad interrogarsi i «padroni» della valle del Panshir. Un esercito «alternativo» ancora dispone del triplo degli uomini di quello «nazionale».

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